- Categoria: Critica d'Autore
- Scritto da Roberto Alfatti Appetiti
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Vita da Paz, gli anni 80 raccontati dai fumetti
di Roberto Alfatti Appetiti*
«La vignetta di Andrea col maggiolone Volkswagen che sfonda il guarda rail mentre i tizi dentro pensano solo a farsi passare la canna, fotografa un’epoca molto meglio di un intero trattato sociologico». Pablo Echaurren quel momento di passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, due epoche vicinissime nel tempo eppure opposte, l’ha vissuto e, come lui, tanti degli amici chiamati da Franco Giubilei a raccontare la breve quanto intensa esistenza dell’artista pugliese che ne fu protagonista principale e ponte.
Diciamolo subito: Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza (Black Velvet, pp.285, € 15), l’ampio volume appena arrivato in libreria, non è l’ennesima agiografia. Ogni pagina sconfina dal filone biografico per restituire l’atmosfera di quel periodo, di cui Pazienza – scomparso il 15 giugno 1988 a soli 32 anni – riuscì più di altri ad interpretarne l’inquietudine e lo spirito autentico. Lo fece attraverso il fumetto, un’arte considerata minore da tutti, compreso il padre Enrico, professore di educazione artistica e pittore, che avrebbe voluto vedere il figlio misurasi con la tela. Non che non c’avesse provato, ma veder finire i suoi quadri nelle case dei costruttori e dei farmacisti – «le persone che detestavo di più» – l’aveva spinto a dedicarsi ai fumetti. Una scelta di campo dettata dalla esigenza di parlare a tutti, anche a chi non aveva una particolare preparazione culturale. Scrittore generazionale, sì, ma senza farsi portavoce di alcuno né tantomeno avallando la deriva ideologica del Movimento. Spinto dall’esigenza situazionista di immergersi tra i coetanei per raccontarne sogni e speranze ma anche ingenuità ed eccessi.
Nato a San Benedetto del Tronto, paese materno, e cresciuto nella paterna San Severo di Puglia, aveva frequentato il liceo artistico di Pescara per poi arrivare a Bologna nel 1974, attirato dal Dams, il nuovo istituto di discipline delle arti, della musica e dello spettacolo che avrebbe dovuto innovare i linguaggi espressivi fino a quel momento rimasti ai margini degli indirizzi letterari accademici. Nient’altro che un’illusione: come fumettista non era considerato abbastanza “artista” dalla cultura ufficiale e per il pubblico delle strisce tradizionali i suoi personaggi “cattivi” e alternativi (Zanardi, Pompeo e tanti altri) erano troppo trasgressivi… «La parola più usata per definire la sua arte è stata trasgressione – ha scritto Vincenzo Mollica – mentre lui si divertiva con i pellegrini della trasgressione come un burattinaio si diverte con i propri burattini».
Quando è ormai chiaro che la spallata all’arte contemporanea non ci sarà e i suoi “colleghi”, svaniti i deliri collettivistici, si affrettano a cercare spazi ad personam in televisione e nei grandi giornali, facendo della satira una professione e diventando, a furia di far caricature degli altri, la caricatura dei rivoluzionari che erano, Pazienza si ritira nella Toscana senese con la moglie.
«La satira non gli è mai piaciuta – ricorda nel libro Sergio Staino – perché sostanzialmente non gliene fregava niente. Anche la sua partecipazione alla Bologna dell’Autonomia del ’77 era un modo più per stare in mezzo alle ragazze, che per un disegno o una volontà politica di lottare contro l’ingiustizia».
Di ritorno dal Brasile, decide di farsi e quell’ultima dose d’eroina gli risulterà fatale, pagando così l’unica concessione al conformismo: quello della tossicodipendenza. Negli Stati Uniti, probabilmente, gli avrebbero già dedicato un museo, da noi l’unica struttura esistente è il Centro Fumetto “Andrea Pazienza” di Cremona, impegnato a valorizzare giovani autori. Sarà pur vero – come scrisse Frigidaire per l’ultimo saluto a Paz – che «morto un genio non se ne fa un altro», ma continuare a puntare sui giovani è il modo migliore per onorarne il ricordo senza trasformarlo in un monumento polveroso quanto inutile.