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Johnny Cash, l'eroe sudista che cantava i carcerati (a fumetti)

cash_bvdi Roberto Alfatti Appetiti*
 
Il prossimo 26 febbraio Johnny Cash avrebbe compiuto ottant’anni. Troppi, per uno che in quanto a vita spericolata non ha avuto nulla da invidiare a Steve McQueen ed è diventato leggenda ben prima di morire, nel settembre del 2003.
Amato e rimpianto da più generazioni di appassionati di musica per la versatilità che gli permetteva di interpretare con altrettanta disinvoltura ballate tradizionali country, talking blues, rockabilly e pop commerciale. Consapevole com’era che un palco non è una cattedra. Rivendicando il diritto di attraversare impunemente stagioni, mode e stili musicali, di cambiare, drasticamente, repentinamente, per rimanere fedele a se stesso e alla sue contraddizioni di cristiano senza chiesa. Lui che s’era innamorato della musica ascoltando ogni domenica i canti nella casa di Dio. Tutt’altro che esemplare, come fedele, ma senza mai perdere la fiducia nel Signore. Comunque fosse andata a finire, all’inferno c’era già stato: viaggio di andata e ritorno nel girone dei drogati e relativi “incidenti” giudiziari. Un lungo purgatorio e poi la risurrezione artistica a metà degli anni Novanta quando quasi tutti, ormai, lo davano per finito. Non i suoi fan, che l’hanno sempre considerato uno di loro. Forse perché possedeva qualità che ad altre rockstar mancavano, preoccupate com’erano di adeguarsi alle regole non scritte dello show-business: la credibilità, la schiettezza folk, l’autenticità, talvolta spiazzante.
 
Nessun effetto speciale: voce, bassa e baritonale, e una chitarra acustica da accarezzare con ruvide mani da contadino. Perché prima di dedicarsi alla musica s’era misurato con la terra, letteralmente, aiutando sin da bambino i genitori nella coltivazione e raccolta del cotone nei campi dell’Arkansas – la sua famiglia aveva ricevuto un piccolo appezzamento di terreno fornito dal governo in seguito al New Deal – e vivendo sulla propria pelle la dura condizione degli agricoltori dell’America sudista. «Non devi aver vissuto in povertà per diventare un musicista country di successo, ma può esserti d’aiuto», riconosceva. Come lo può essere arruolarsi nell’esercito per sfuggire a un lavoro frustrante, quello di addetto alla catena di montaggio della fabbrica, e al dolore per la morte di uno dei suoi sei fratelli. Nel 1950 si fa aviatore: un radiotelegrafista che non perde occasione per ascoltare musica. Svolge una parte del servizio militare in Germania e lì acquista la sua prima chitarra, impara a suonarla da autodidatta e crea un piccolo gruppo musicale con altri commilitoni. Subito dopo il congedo, nel 1954, sposa una giovane italoamericana, Vivian Liberto, ma il matrimonio è destinato a fallire.
A ripercorrere le tappe, sempre in salita, di una vita dura quanto movimentata – dai primi passi mossi a Memphis, “la mecca della musica”, nella stessa mitica Sun Records che andava scritturando i vari Carl Perkins ed Elvis Presley, all’agognato successo – ci aveva pensato lo stesso Cash in due biografie, pubblicate a distanza di vent’anni l’una dall’altra. La prima, The Man in Black, è del 1975 e la seconda, Cash: the Autobiography, è del 1993. Nel 2004, poi, nelle librerie statunitensi è arrivata The Man Called Cash di Steve Turner, pubblicata in Italia nel 2008 da Kowalski con il titolo Johnny Cash. La vita, l'amore e la fede di una leggenda americana. Un lavoro quest’ultimo, onesto e obiettivo, privo di enfasi. A rilanciare la cashmania, tuttavia, è stato – potere del grande schermo – un film: Quando l’amore brucia l'anima (Walk the Line), pellicola del 2005 diretta da James Mangold e con Joaquin Phoenix nei panni del cantante.
«Alla fine sono le storie che restano, non i fatti. E le storie vanno raccontate», sosteneva Cash. E di una a fumetti si sentiva la mancanza. A colmare tale lacuna è stato Reinhard Kleist (Hürth, 1970), appassionato di film western e disegnatore che, dopo un’intensa gavetta su soggetti di Lovecraft, è da diversi anni accreditato come miglior autore di fumetti in lingua tedesca. Ma è anche un fan di Cash e, in quanto tale, voleva saperne di più sull’uomo. «Volevo sapere – ha spiegato – chi è questo tipo che canta». Ha raccolto tutto quello che poteva: foto, articoli, interviste, biografie, testimonianze varie. Ne è venuta fuori Cash. I see the darkness (Black Velvet Editrice, Collana Biopop, pp. 222, € 16), graphic novel salutata come “miglior libro” al salone del fumetto di Berlino. È il suo tratto incisivo, rigorosamente in bianco e nero, a restituirci il vero Johnny Cash, sottolineandone i pregi (la generosità) senza trascurare i difetti (l’egocentrismo esasperato, l’inaffidabilità), le luci e le ombre di una vita vissuta senza mai perdere il gusto di spingersi oltre, di rimettersi in gioco. Come Franz Dobler ci ricorda sin dalla prefazione: «Nulla è sicuro nella vita, nel lavoro, in amore. Nessuno può dirsi sicuro. A meno che non si rinchiuda la propria vita, il proprio lavoro, i propri amori in un carcere di massima sicurezza».
Ed è proprio il celebre concerto che Cash tiene nel carcere di Folsom davanti a duemila detenuti, a fare della sua “voce”, grazie allo storico LP Johnny Cash at Folsom Prison, la più popolare d’America. È il 14 gennaio del 1968, una data fondamentale per Cash, per questo Kleist la carica di particolare solennità, tanto da aprire con tale concerto il terzo capitolo del suo romanzo a fumetti: quello della riscossa. Se il primo capitolo copre dal 1935 al 1956, il secondo, dedicato al decennio successivo, si chiude nel peggiore dei modi: arresto a El Paso (Messico) per introduzione illegale di pillole di anfetamina, fine del primo matrimonio e, nel 1967, un collasso per overdose. Quando pensa di aver toccato il fondo, Cash riesce a risalire lentamente la china, anche grazie alle cure dellla musicista June Carter, che da collega diventerà sua moglie.
Alla fine degli anni Sessanta inizia un fortunato programma televisivo sul network ABC. Nel 1971 s’inventa anche attore e interpreta A Gunfight (Quattro tocchi di campana), film western con Kirk Douglas; poi partecipa a The Gospel Road, pellicola imperniata sulla figura di Gesù Cristo e interpreta se stesso, ovvero un cantante country, in un episodio della serie televisiva con Peter Falk nei panni, dimessi, del celeberrimo Tenente Colombo. Nel frattempo continua a sfornare album di successo come What is Truth, Man in Black e Flesh and Blood.
Negli anni Ottanta, però, quando sembra destinato a un inesorabile declino, conquista definitivamente il pubblico, anche dei più giovani, con American Recordings, disco che diventa in poche settimane portavoce della label. La critica lo apprezza, il pubblico gradisce, le canzoni passano sempre più spesso in radio. I Grammy Awards pioveranno copiosi e lo consacreranno – come scrisse nel necrologio il Village Voice – «l’artista country più importante dell’era moderna».
 
Nelle ultime tavole dell’avvincente biografia di Kleist troviamo il cantante assai più vecchio della sua età anagrafica, seduto in giardino con una coperta sulle ginocchia a sognare scene di caccia popolate da cowboy, lui che sosteneva di avere sangue indiano nelle vene. Cash muore il 12 settembre del 2003, appena 71 anni ma con alle spalle una vita ben più intensa e densa di gran parte dei suoi coetanei. Complicazioni diabetiche, le ultime di una serie di acciacchi a compromettere un fisico minato da una vita dissoluta. Pochi mesi prima era scomparsa June e da allora sono sepolti insieme nel cimitero Hendersonville Memory Gardens a Hendersonville nel Tennessee. La sua musica, invece, vive, proprio come ai vecchi tempi quando – come scrive Kleist – tutta l’America alzava il volume della radio quando riconosceva la sua voce.
*Articolo originariamente apparso su Il Secolo d'Italia del 7 gennaio 2012. L'articolo on line è pubblicato anche sul blog dell'autore a questo indirizzo.
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