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Diabolik cambia stile: adesso parla al microfono di Radio Rai2

diabolik_01_07di Roberto Alfatti Appetiti*

L’annuncio l’ha dato direttamente Diabolik nei giorni scorsi. Su Twitter: «torno su RaiRadio2 con Eva». Fino al 27 del mese, dal lunedì al venerdì, allo scoccare della mezzanotte, il re del terrore avrà la voce di Luca Ward (ed Eva Kant quella di Roberta Greganti). Quale occasione più ghiotta del cinquantenario del personaggio creato nel 1962 dalle sorelle Giussani per riproporre i “radiofumetti”? Dalle strisce di carta ai download del web, dai cartoni animati ai videogames, dai social network alla radio, il capostipite degli (anti)eroi d’inchiostro conferma la vocazione a uscire sempre più spesso dall’edicola, il suo regno, per andare oltre il fumetto. Dopo una vita passata all’opposizione – avversario dichiarato dell’Italia puritana e della morale cristiana, individualista in barba a ogni collettivismo di moda, stiloso avventuriero col gusto della sfida all’epoca del compromesso storico – gode di un “consenso” tale da potersi vantare d’essere il più longevo di tutti, secondo solo a Tex.

Tramontata ormai da decenni la golden age dei nostri fumetti neri, chiuse una dietro l’altra le testate dei suoi emuli in calzamaglia – Kriminal, Satanik, Demoniak, Sadik etc. – rimane un’icona amata e rispettata, la cui fama è diffusa in tutto il mondo. Un patrimonio di credibilità che, merchandising a parte, lo rende appetibile testimonial di campagne pubblicitarie e sociali. Non mancando di suscitare polemiche. Il refrain è sempre lo stesso: Diabolik sta diventando buonista, ha il braccino corto quando si tratta di ricaricare la pistola, si è arreso al politically correct e prima o poi finirà i suoi giorni aiutando le vecchiette ad attraversare la strada.

La più recente delle polemiche risale a pochi mesi fa. A far discutere, una ristampa in cui Diabolik aiuta un malato terminale a togliersi la vita. Diventando tout court, per alcuni, un sostenitore dell’eutanasia. A questo si aggiunga che, in passato, si è speso contro l’abbandono degli animali sulle autostrade, l’omofobia, i pericoli della guida ad alta velocità e le relative stragi del sabato sera. Ce n’è abbastanza per farne un criminale da aperitivo, per di più analcolico (nel palmarès anche una pubblicità al Crodino). La macchia peggiore, tuttavia, rimane lo spot della Renault Twingo. Ci manca solo che decida di rinunciare alla mitica Jaguar E-Typenera per un’utilitaria e il crollo d’immagine sarebbe irrecuperabile. Avrebbe lo stesso fascino del proibito di un impiegato delle poste. Su un’unica campagna nessuno osa metterne in discussione la coerenza: quella contro la droga. Sin dai primi numeri, infatti, il nostro s’è dimostrato intransigente. Può usare pentothal o scopolamina, sparare aghi anestetici, ma odia la droga. E chi ne fa commercio.

«Il messaggio di Diabolik è chiaro: l’autocontrollo, l’autostima, la padronanza delle situazioni sono valori irrinunciabili per l’uomo e la droga, qualsiasi tipo di droga, è inconciliabile con questi valori». Così testimonia Mario Gomboli, non solo come persona informata dei fatto ma, nella sua qualità di collaboratore storico e poi direttore generale della Astorina, quale papà “adottivo” di Diabolik. Ci tiene a chiarire come il figliolo che le sorelle Giussani gli hanno affidato non sia il male incarnato o, come direbbero alcuni, il male assoluto. «Dalle sue azioni indubbiamente criminose – sottolinea Gomboli – traspare un’etica ben precisa, certamente non tradizionale ma non per questo meno valida».
Di tutt’altro avviso i benpensanti che, in quel novembre 1962, saltarono sulla sedia quando si trovarono davanti il primo numero della serie, Il re del terrore, in un albo di piccole dimensioni, il pocket, che, importato dalla Francia, si affermò in breve come “formato Diabolik”. Comodo, pratico da leggere ovunque, ideale soprattutto da nascondere nei sussidiari scolastici. La prima denuncia arriva già con il terzo numero, neanche a farlo apposta titolato L’arresto di Diabolik. È il 25 marzo 1963. Il processo si concluderà un anno dopo con l’assoluzione piena ma inaugura una stagione di sequestri e attacchi mediatici. È sufficiente che nelle storie compaia una donna in bikini perché si gridi allo scandalo. Diabolik non dovrà guardarsi le spalle soltanto dall’ispettore Ginko ma dagli altrettanto ostinati procuratori della Repubblica che lo accuseranno di violare il comune senso del pudore. Un’accusa priva di fondamento, tanto più perché Diabolik, a differenza di alcuni dei suoi imitatori, non ha mai usato l’erotismo e la violenza per vendere più copie.
Se prima gli eroi non rubavano, non sparavano per primi e, quando lo facevano, si trattava di fermare pericolosi criminali, Diabolik archivia come superato lo stereotipo, mutuato d’oltreoceano, dell’eroe buono votato al salvataggio dell’umanità, della rassicurante se non proprio pedagogica lettura per adolescenti. Diabolik ruba e non lo fa mosso dall’altruismo come un qualsiasi Robin Hood. Non dà ai poveri quel che toglie agli odiosi ricconi di Clerville. Non è un proletario, il suo tenore di vita è alto e reinveste, semmai, sulla tecnologia finalizzata a rendere sempre più professionale la sua attività: che rimane quella di ladro. Uccide, non per capriccio ma senza particolari scrupoli, chi ne ostacola i piani. Alle armi da fuoco preferisce quelle bianche, di cui è maestro. È un eroe negativo sullo stile di Fantomas, Rocambole e Arsenio Lupin. È un cattivo senza essere né sporco né brutto, anzi: è seducente e sportivo. Si muove al di là del bene e del male. Quel che è inaccettabile, però, è che vince, rovesciando una consolidata tradizione per cui a prevalere, alla fine, sono i buoni.

E a vincere tale scommessa furono proprio due signore delle buona borghesia meneghina, le sorelle Giussani: Angela, scomparsa nel 1987, e Luciana, moglie di Gino Sansoni, titolare della casa editrice Astoria, venuta a mancare dieci anni fa. In tempi in cui l’emancipazione femminile era ancora lontana, crearono dal nulla un’azienda di successo, la Astorina, e diedero vita a un personaggio che è ancora fortemente radicato nell’immaginario popolare e con il quale si sono misurate – dopo di loro, che furono anche soggettiste e sceneggiatrici – più generazioni di autori. La leggenda vuole che tutto ebbe inizio con l’idea di Angela di offrire ai pendolari della Stazione Nord di Milano – che transitavano in gran numero nelle zone adiacenti a Piazza Cadorna, dov’era la sede dell’Astorina – un’avventura piena di colpi di scena da leggere in treno. Un ritmo narrativo veloce e intrecci degni del miglior “giallo”, in grado di catturare l’attenzione del lettore. Qualcosa che richiamasse il feuilleton francese alla Fantomas ma con un personaggio come non s’era mai visto sino a quel momento.

La consacrazione cinematografica arrivò nel 1968 con un film diretto da Mario Bava, John Phillip Law nei panni, la calzamaglia nera, di Diabolik e Marisa Mell in quelli di Eva Kant. La pellicola non ebbe grande successo in Italia ma all’estero è ancora oggi un piccolo cult. Diabolik non fu l’unico “nero” ad arrivare sul grande schermo. Il primo era stato, nel 1966, Kriminal, il personaggio di carta e inchiostro creato da Max Bunker e Magnus. Sempre del 1968, invece, con una pellicola diretta da Pietro Vivarelli e prodotta da Romano Mussolini, fece il suo debutto nelle sale Satanik, la “sorella di sangue” di Kriminal, anche lei creata dalla coppia più prolifica del fumetto italiano. La rivoluzione dei costumi chiedeva eroi meno retorici, diversi da quelli di prima che – per dirla con Bunker – « erano bravi, buoni, senza difetti, non mangiavano mai e non facevano l’amore». I neri si fecero trovare pronti a quell’appuntamento. Finita la loro missione, sono spariti. Diabolik è ancora lì.

*Articolo apparso originariamente su Il Secolo d'Italia del 21 gennaio 2012 e reperibile on line sul blog dell'autore.

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