Fumetto d'Autore ISSN: 2037-6650
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Analisi » Il nuovo corso di Dylan Dog

dylan dog 342di Camillo Chiarieri

Quando uscì il primo albo di Dylan Dog avevo 16 anni. Era appena iniziato l’autunno dell’86, l’aria profumava ancora d’estate e la scuola era iniziata da pochi giorni, l’adolescenza si schiudeva piena di promesse e speranze, ma anche di paure e debolezze. Gli eroi della fanciullezza, Tex e Zagor, che io e i miei amici avevamo sperato di poter imitare una volta cresciuti, iniziavano a sembrarci distanti e inarrivabili: noi non eravamo chiaramente in grado di dividere il mondo in bianco e nero come loro e non eravamo invincibili. Anzi, se il nostro cuore batteva per l’interrogazione di greco e dinanzi alla ragazza che ci piaceva, figuriamoci cosa avrebbe fatto se fossimo stati assediati da frotte di Hualpai in un pueblo delle Sierras. Dylan Dog fu un colpo di fulmine per tutta la mia generazione. È difficile spiegare ora, a distanza di trent’anni, cosa rappresentò quel personaggio di fantasia, cosa volle dire leggere il primo numero e poi, soprattutto, il 6 e il 7, “La bellezza del demonio” e “La Zona del Crepuscolo”, che sancirono la nascita definitiva dell’amore per quel personaggio e modificarono per sempre la nostra concezione di “fumetto”. Fu una vera, splendida rivoluzione, che i ragazzi di ora neanche immaginano! Dylan Dog era noi, incarnava metaforicamente la nostra limpidezza e la nostra debolezza, gli ideali e le paure, indicava che per battersi contro i “mostri” non bisogna necessariamente essere eroi, ma che si può combattere e vincere anche se si è persone “normali”. Scoprire Dylan Dog fu, per tutti i ragazzi della metà degli anni Ottanta, bellissimo, rivoluzionario, poetico, epico. E l’amore durò per anni, mentre Sclavi scriveva testi che dovrebbero essere annoverati tra le vette più alte della letteratura italiana della fine del Novecento, da “Il lungo addio” a “Totentanz”, solo per citare i primi due titoli che mi vengono in mente.

Poi cos’è accaduto? Probabilmente nulla di grave, nulla di particolare: Tiziano Sclavi ha detto tutto ciò che di meraviglioso aveva da far dire a questo personaggio, così come altri ottimi autori che in un primo tempo ne hanno incarnato perfettamente lo spirito, come la giovanissima e sensibile Paola Barbato. E chi è venuto dopo non aveva nulla di particolarmente significativo da fargli raccontare. Così il Dylan Dog degli ultimi 10 anni non ha avuto più nulla a che vedere con quello di un tempo: ne è stata solo la pallida, tristissima, "maschera", indossata da una scimmia più o meno addestrata a muoversi come l'originale. E così ha iniziato a vendere meno, a perdere lettori: non è riuscito a rimanere nel cuore dei vecchi e non ha conquistato il cuore di nuovi. A questo punto, da ormai qualche mese, Dylan Dog è passato nelle mani del novello demiurgo del fumetto italiano, Roberto Recchioni. Sono trascorsi ormai diversi mesi da questo passaggio di consegne e dall’inizio del “nuovo corso”, perciò possiamo iniziare ad azzardare un primo bilancio. Pare che Recchioni si stia muovendo su due fronti, che sono quelli sui quali si è d’altra parte sempre mosso Dylan Dog: ci sono storie più movimentate, con mostri (di tutte le nature possibili), azione e intrighi e altre storie più intimiste, “autoriali” potremmo definirle, che poi sono quelle che hanno reso il personaggio l’icona che è stata. Per quanto riguarda le storie del primo tipo, niente da dire: Recchioni conosce il suo mestiere, e poi si vede che è cresciuto a pane e (ottimi) telefilm americani. I ritmi sono esemplari, la costruzione delle storie è tecnicamente egregia e ci sono di nuovo anche le sofisticate citazioni che da sempre caratterizzano il migliore Dylan Dog più simile a un serial americano. Per questo primo tipo di storie, i dubbi non stanno nei plot o nelle sceneggiature, ma altrove: chiaramente, con il trascorrere dei mesi e il procedere della “ristrutturazione” di Recchioni, “quello lì”, il protagonista, non è più Dylan Dog. È un altro: non importa se sia comunque simpatico o antipatico, eroico o dubbioso, ma chiaramente non è più la stessa persona. Cioè a mano a mano che passano le storie, i lettori rimasti stanno leggendo via via le vicende di un altro personaggio dei fumetti.

Il problema vero però emerge nel secondo tipo di storie, quelle più introspettive: lì Recchioni dimostra di non essere assolutamente in grado di gestire temi del genere. Lì la tecnica non basta, ci vogliono cuore, dolore, coinvolgimento: quelli di Sclavi e della prima Barbato, ma che un “golden boy” non può (forse per sua natura intrinseca di “demiurgo geniale e sempre vincente”) avere. E così arriva la catastrofe, rappresentata da “Il cuore degli uomini”, l’albo ancora per qualche giorno in edicola. Qui abbiamo un sedicente Dylan Dog che all’inizio dell’albo (senza la minima sensibilità, mostrando una stupidità egoistica da ragazzino di seconda elementare che, stufo della fidanzatina di sette anni, durante la ricreazione va a dirle che non le vuole più bene), va dalla sua ragazza, che (povera disgraziata) per guadagnare due soldi sta lavorando come promoter in un supermercato vestita da pupazzo, a dirle così, su due piedi, che a lui non importa più nulla di quella storia. Dio mio: Dylan Dog è dunque diventato un animale senza cuore!!! Dov’è finita la sensibilità che lo ha reso il primo fumetto amato dal pubblico femminile? Dov’è finita la sofferta partecipazione emotiva, la profonda empatia che sempre lo hanno legato alle persone con cui ha diviso un pezzo del suo cammino? Potremmo fare decine e decine di esempi di storie che attestano come questo Dylan Dog attuale sia un impostore malvagio. E questo è solo l’inizio, perché con il proseguire della lettura questo impostore che si fa chiamare Dylan Dog, più che un eroe dei fumetti, si dimostra un personaggio che meriterebbe un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio): un folle che si fa torturare senza senso in un situazione senza senso da altri personaggi senza senso. Ecco, io credo che questa storia “autoriale” sia stata la pietra tombale del Dylan Dog della nostra giovinezza e abbia definitivamente svelato la carenza della gestione Recchioni: la sua incapacità a evocare, creare atmosfere, suggestioni, coinvolgimento emotivo. Cioè tutte le caratteristiche per le quali abbiamo amato l’autore Tiziano Sclavi di un amore smisurato.

Mi dispiace soprattutto per il suo eccelso lavoro di un tempo, per quelle storie senza età, capolavori del fumetto italiano e mondiale che sono sepolti sotto pagine e pagine di decadenza, che chi non conosce può non avere voglia di scoprire (come attesta il flop clamoroso, inaspettato e ingiusto della ristampa a colori delle prime storie in abbinamento con Repubblica, sospese quasi immediatamente). Dylan Dog andrebbe chiuso, altro che storie del nuovo corso, del vecchio corso, speciali, magazine e roba del genere. Di Dylan Dog andrebbe pubblicata una storia l’anno, bellissima, ispirata, degna della storia del personaggio. E Recchioni potrebbe inventarsi il personaggio tutto suo, con un proprio nome, con i propri atteggiamenti assurdi, con la profondità di un (buon) telefilm americano, che gli è congeniale. Senza impossessarsi come un organismo parassita di personaggi illustri che sono stati vere e proprie icone generazionali.

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