Fumetto d'Autore ISSN: 2037-6650
Dal 2008 il Magazine della Nona Arte e dintorni - Vers. 3.0 - Direttore: Alessandro Bottero
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La gente fa il tifo per noi

borsellinoefalconedi Paolo Borsellino*


In ricordo di Giovanni Falcone

Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d'amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d'onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: "La gente fa il tifo per noi". E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. (...)

[Questo brano è estratto dal discorso tenuto da Paolo Borsellino il 23 giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo; il testo integrale è nel libro di Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, Milano 1994, alle pp. 256-258].

Da una lettera ad una insegnante

(...) 1. Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l'idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria, per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e diventai magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E' vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all'ufficio istruzione processi penali, ma alternai l'applicazione, anche se saltuaria, a una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle distanze legali, delle divisioni ereditarie. Il 4 maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici volle che mi occupassi io dell'istruttoria del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anch'egli dal civile, il mio amico d'infanzia Giovanni Falcone, e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia e a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso a occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente della criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e non, hanno oggi attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant'anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta. (...)
(...) 3. La mafia (Cosa Nostra) è un'organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si distingue da ogni altra per la sua caratteristica di «territorialità». Essa è divisa in famiglie, collegate tra loro per la dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono a esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, o deve esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi di tutte le ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio, principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici, fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassemblabili a quelli
di giustizia, ordine pubblico, lavoro, che dovrebbero essere gestiti esclusivamente dallo Stato. E' naturalmente una fornitura apparente perché a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l'imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti). La produzione e il commercio della droga, che pure hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto irreversibile con lo Stato, cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall'interno, cioè con infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, 'ndrangheta, sacra corona unita) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non ne hanno l'organizzazione verticistica e unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del «consenso» di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo viene a confondersi. (...)

[Il testo precedente consiste di due estratti da una lettera che la mattina del 19 luglio 1992 Borsellino aveva iniziato a scrivere in risposta ad una professoressa di Padova che tre mesi prima lo aveva invitato ad un incontro con gli studenti di un liceo. Il testo è ripreso dalle pp. 289-291 del  libro di Umberto Lucentini sopracitato].

* Magistrato, membro del pool antimafia di Palermo che istruì il maxiprocesso a Cosa Nostra, fu assassinato dalla mafia il 19 luglio del 1992. Era un uomo giusto e coraggioso. Si può ripetere per lui quanto scrisse di sé Paolo nella seconda lettera a Timoteo, 4, 7: "Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato fino al termine della mia corsa, ho serbato la fede".
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la
mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo
uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini
della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati
partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni
Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni
di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che
egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda
situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a
rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita
è stata un atto d'amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha
generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e
per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura,
amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa
terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze
morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la
patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo.
E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro
dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d'
onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere
nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una
distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche
religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza
del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale,
dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la
felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente
ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi
disse: "La gente fa il tifo per noi". E con ciò non intendeva riferirsi
soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro
del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro,
stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione
della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. (...)
[Questo brano è estratto dal discorso tenuto da Paolo Borsellino il 23
giugno 1992, ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai
boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo; il testo integrale è
nel libro di Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita,
Mondadori, Milano 1994, alle pp. 256-258].

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