- Categoria: Critica d'Autore
- Scritto da Lorenzo Barruscotto
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RECENSIONE CARTONATO DEADWOOD DICK "TRA IL TEXAS E L'INFERNO"
"Avete mai fatto caso che nella vita ogni tanto si incontra qualcuno che non va fatto in…alberare?” Ecco, quel qualcuno è Deadwood Dick. Mutuandola ed adattandola per i nostri scopi, la celeberrima frase pronunciata da un granitico Clint Eastwood in “Gran Torino” serve perfettamente a delineare il carattere del personaggio protagonista del Cartonato di cui parliamo oggi. Nato dalla vulcanica mente dello scrittore Joe R. Lansdale, è giunto fino a noi appassionati di West e di nuvole parlanti dagli Stati Uniti grazie alla trasposizione a fumetto ideata da Maurizio Colombo che ricopre il ruolo di sceneggiatore della storia in questione.
Visto che già dalle prime righe si evince che c’è parecchia carne al fuoco è meglio procedere con ordine. Il Cartonato intitolato “Fra il Texas e l’inferno” racchiude le vicende narrate in due dei sette volumi della miniserie dedicata a Deadwood Dick (il cui percorso editoriale è iniziato il 6 luglio 2018), precisamente il numero 3 e 4 (“Fra il Texas e l’inferno” e “Il piombo e la carne”) pubblicati sotto la bandiera della Collana Audace, la costola della Bonelli dedicata a, come dire, lettori più navigati, in cui si possono trovare contenuti maggiormente espliciti in termini di violenza e bassezze proprie degli esseri umani, dall'essenza più cruda di quanto si riscontri tra le pagine di Tex, per fare un esempio illustre di fumetto western.
Io direi che è meglio partire dal fulcro, dal cuore dei racconti, vale a dire da chi li vive in prima persona e condivide con il lettore, spesso rivolgendoglisi direttamente, i guai che gli piovono sulla zucca durante il suo vagabondare per la Frontiera, che, tanto vale sputare subito il rospo, non è mai stata così “brutta, sporca e cattiva” come quella che si dipana davanti agli occhi esperti e disillusi di quella simpatica canaglia, sia detto in tono esclusivamente bonario, che è Dick.
Già, partiamo da lui. Come è facile intuire “Deadwood Dick” non è il suo vero nome. Sappiamo solamente quello di battesimo, Wiliford. Ce lo confida lui stesso nel primo albo della mini-saga e proprio perché si tratta di una confidenza, visto il tipo, se fossi in voi starei ben attento a tenerla per me, questa informazione.
Ritratto del vero Nat Love ad opera di Lorenzo Barruscotto
Ad essere sinceri si dovrebbe scavare un po’ più a fondo per scoprire davvero con chi abbiamo a che fare. Forse non tutti sanno che l’ispiratore ultimo del pistolero di colore che, ve lo garantisco, diventerà un amico prima della fine di questo nostro ficcanasare nei fattacci che lo riguardano, è realmente esistito ed aveva un nome altrettanto pittoresco: Nat Love. Nato nella Davidson County, Tennessee, nel giugno del 1854 e morto a Los Angeles nel 1921, fu un cowboy le cui vicissitudini lo resero uno dei più noti “eroi neri” dell’epopea del West. Non nero perché fosse malvagio, ma perché aveva antenati originari dell’Africa.
Suo padre Sampson era stato schiavo, una sorta di caposquadra, nella piantagione di un certo Robert Love, descritto come “un padrone gentile ed indulgente” dallo stesso Nat, e sua madre, di cui si ignora il nome, faceva la cuoca, oggi diremmo che era “executive chef” nella cucina della casa del padrone. Grazie al padre, nonostante le leggi che impedivano l’alfabetizzazione degli schiavi, imparò a leggere e scrivere da bambino. Una volta terminata la Guerra di secessione e pertanto abolita la schiavitù, i genitori rimasero nella piantagione come mezzadri cercando di coltivare tabacco e mais nei circa 20 acri che erano stati loro assegnati ma il capofamiglia morì poco dopo. Quindi il giovane Nat dovette imparare diversi mestieri per aiutare la famiglia, composta anche da una sorella ed un fratello. Fu in quel periodo che si fece notare per avere un talento naturale nel domare i cavalli. Ne vinse addirittura uno in una sorta di lotteria rivendendolo per una cinquantina di dollari. Investimento che gli consentì di lasciare la casa natia all’età di soli 16 anni, diretto all’Ovest. Durante una sosta a Dodge City, Kansas, trovò un impiego come cowboy presso i mandriani del “Duval Ranch”, situato sul fiume Palo Duro, nella Panhandle del Texas. Secondo la sua autobiografia Nat Love combattè razziatori di bestiame e sopportò condizioni climatiche proibitive. Diciamo ordinaria amministrazione per un “cattle driver”, cioè un vaquero che guidava mandrie attraverso gli sterminati territori delle "nostre parti". Si allenava spesso per migliorare le proprie abilità di tiratore e cavallerizzo, caratteristica per la quale pare abbia guadagnato dai suoi datori di lavoro il suo primo, tra i tanti, soprannomi: “Red River Dick”. Nel 1872 si trasferì in Arizona. Sempre prestando fede alla sua autobiografia, sembra che, durante il suo impiego presso un ranch di quelle parti, il “Gallinger”, non lontano dal Gila River, ebbe occasione di conoscere Pat Garret, Bat Masterson, perfino Billy the Kid ed altri leggendari “VIP” della Frontiera.
Dopo aver condotto una mandria alla stazione ferroviaria di Deadwood, nel territorio del Dakota, partecipò ad un rodeo il 4 luglio del 1876. Vinse diverse gare: lancio del lazo, i contest che prevedevano l'agguantare un vitello e legarlo bloccandolo a terra, il mondare un bronco, vale a dire un cavallo selvaggio (quello richiedeva un certo numero di acrobazie in sella)… insomma era un tipo in gamba. Fu proprio dopo quel rodeo che egli stesso sostiene che amici ed ammiratori abbiano iniziato a chiamarlo “Deadwood Dick”.
Prestando fede alle parole di Nat, venne poi fatto prigioniero dai Pima, non proprio la più bellicosa delle tribù per sua fortuna, mentre catturava del bestiame randagio dalle parti del Gila River. Si potrebbe anche ipotizzare che i guerrieri Pima, guidati da un certo Yellow Dog, avessero messo gli occhi sul medesimo bestiame e non abbiano preso con sportività che qualcuno glieli soffiasse sotto il naso, ma fatto sta che portarono Dick al villaggio sicuramente non in qualità di ospite d’onore. Nonostante l'african-american cowboy affermi di aver ricevuto ben 14 ferite di pallottola durante la sua carriera, tra l’altro la maggior parte proprio durante la sua strenua difesa contro questi pellerossa, conservò lo scalpo. Anzi, sembra che gli venne risparmiata la vita in onore del suo coraggio e delle sue origini, dal momento che gran parte dei membri della banda erano di sangue misto. Ora, non voglio dire che non sia vero però o i suoi avversari facevano davvero tutti pena come tiratori ed i confetti lo beccarono per lo più di striscio ed in modo assolutamente non grave, oppure il signor Love in questa circostanza ha veramente un tantino esagerato, perché altrimenti avrebbero dovuto iniziare a chiamarlo “Setaccio Dick” per lo meno. E non stiamo parlando di un personaggio di fantasia come Aquila della Notte che può sopportare decine di ferite che siano buchi in una spalla o solchi di striscio alla tempia ma di una persona vera, quindi pallottole vere, sangue vero, pericolo reale. Dopo questo incontro burrascoso la tribù lo accolse e lo adottò. Pare che gli sarebbe stata offerta una dote di un centinaio di ponies se avesse sposato la figlia di Yellow Dog. Ma di lì a poco come ringraziamento, Love fregò un mustang e se la filò verso il Texas Occidentale. Non fatemi fare battute sulle eventuali caratteristiche fisiche o caratteriali della fanciulla che volevano appioppargli. Evidentemente non era il suo tipo. Nat stesso scrisse: “…montato sul mio cavallo, con le mie fidate pistole nella cintura, mi sentivo come se potessi sfidare il mondo…” E meno male che di cognome faceva “Love”.
Non stupisce che il vero Nat Love oltre ai lavori più disparati finì per fare il marshall per un periodo. Fu testimone, come sostiene lo stesso Lansdale, della fine dell'era delle grandi cacce ai bisonti (attorno al 1880).
Qualche anno dopo decise di appendere il lazo al chiodo. Si sposò nel 1889 con una donna di nome Alice, da cui ebbe un figlio, e si stabilì inizialmente a Denver dove, nel 1890, iniziò a lavorare per la ferrovia, con diversi compiti tra cui facchino e sorvegliante per i vagoni letto sulla tratta fra Denver e Rio Grande. Trascorso un certo tempo lui e la sua famiglia si trasferirono definitivamente nella California meridionale.
Nel 1907 pubblicò la sua autobiografia intitolata “Life and Adventures of Nat Love, better known in the cattle country as Deadwood Dick” (“Vita e Avventure di Nat Love, meglio conosciuto nel paese del bestiame come Deadwood Dick”) che costituisce sostanzialmente la sua eredità. Trascorse l’ultima parte della sua vita lavorando come corriere e guardia per una compagnia di sicurezza di Los Angeles, la “General Security Company”, e nella Città degli Angeli si spense all’età di 67 anni.
Ritratto di Joe Lansdale realizzato da Lorenzo Barruscotto.
Lo scrittore ha ricevuto direttamente il disegno e ha così commentato:
"The portrait is good. Thanks for drawing." (Il ritratto è bello. Grazie per averlo disegnato.)
Quindi è ispirandosi a questo pittoresco personaggio anzi a questa persona che Lansdale si è basato per ideare le novelle “Hide and Horns”, “Soldierin” e poi ancora “Black Hat Jack” ed il romanzo “Paradise Sky”.
I soggetti della miniserie e pertanto del cartonato sono dello stesso Lansdale: secondo lo scrittore texano è stata proprio la biografia di Nat Love a convincerlo che la vita di quell’uomo meritava di essere raccontata al mondo, rappresentando un “simbolo di libertà e coraggio”, testuali parole. Lansdale ha dato il suo benestare alla realizzazione del fumetto con entusiasmo, essendone egli stesso un appassionato, così come ama i film ed il West in generale. D’altra parte è e la considera un po’ casa sua, venendo dal Texas ed ambientandoci molti dei suoi racconti. “Il Texas è uno stato mentale” avrà modo di ripetere, riprendendo una frase dello scrittore John Steinbeck, premio nobel per la letteratura.
Come detto, Lansdale ha una vera passione per i fumetti e gli eroi, veri o di fantasia. E già questo ce lo rende simpatico. Ma col tempo sembra che Batman abbia raggiunto il podio delle sue preferenze: nessun super-potere (a parte l’orribile battuta di una delle ultime versioni in cui un non certo in forma Ben Affleck riassume le sue abilità con “Sono ricco”) ma intelligenza, coraggio e voglia di riscatto oltre che di vendetta verso il crimine in generale. Il buio diventa un alleato e non qualcosa da temere perché sicuramente cela una minaccia. O meglio la cela ma non per i galantuomini.
Riferendoci nello specifico al nostro Cartonato, nei dialoghi (grazie ai quali spicca la sempre ottima prova di Marina Sanfelice al lettering) e nella tagliente ironia, un po' alla Sergio Leone, come avremo modo di approfondire, che impregna ogni pagina, l'impronta di Lansdale è stata mantenuta volutamente.
I toni sono forti, intensi, pungenti, dovendo raffigurare violenza, depravazione, abusi, sangue, sudore e lacrime, sporcizia e miseria, povertà, vigliaccheria ma anche valore. Non si percepisce alcun calo del ritmo narrativo anche quando sono presenti le didascalie, c'è qualche pausa ma seguita subito da riprese serrate ed esplosioni che fanno correre gli occhi del lettore insieme al protagonista e ci fanno istintivamente spostare la testa per schivare anche noi le pallottole.
Lo stile del racconto a volte sfiora l'iperbolico, proprio come la biografia di Nat Love. Ed anche i romanzi di Lansdale hanno quel carattere sopra le righe alla “dime novel”. Lo stesso scrittore ha firmato anche delle sceneggiature di episodi horror ad ambientazione western su Jonah Hex, un’avventura di Batman, Conan, The Lone Ranger and Tonto.
E Bass Reeves, invece? Chi era costui? Fu non un fumetto ma uno dei più famosi sceriffi e per giunta di colore. Pare che il personaggio del Duca ne “Il Grinta” sia ispirato a lui. Sembra che ispirò anche il personaggio di Lone Ranger per via del fatto che utilizzasse travestimenti quando era alle calcagna di un fuorilegge, era coraggioso ed abile con le armi. Taluni aspetti della personalità del vero Reeves sono serviti per donare spessore ad alcune sfaccettature del carattere del Deadwood Dick di Lansdale. Tra l’altro il vero Reeves assomiglia maledettamente all’attore Denzel Washington (a parte i classici baffoni da sceriffo).
Nel 1875 lo U.S. Marshall James Fagan ricevette il compito di nominare 200 vice. Avendo sentito parlare di Reeves, quest'ultimo era un ottimo conoscitore di dialetti indiani ed acuto cercatore di piste, lo arruolò tra i suddetti vice. Reeves fu il primo “Deputy” nero a servire ad ovest del Mississippi, precisamente gli venne assegnato il territorio dell'Arkansas. Prestò servizio anche in Texas ma venne trasferito dove c'era bisogno, altre volte. Lavorò per 32 anni come ufficiale di pace federale nei territori indiani e venne apprezzato da colleghi e giudici. Non rimase mai ferito nonostante il suo cappellone gli fosse stato bucato in svariate circostanze e non per avere la testa più fresca. Sembra che abbia ucciso per difesa personale 14 fuorilegge nella sua carriera e lui stesso sostenne di averne catturati più di 3000 prima di ritirarsi. Pensate che dovette perfino arrestare uno dei suoi figli per omicidio: si dice che si propose volontario per la missione, non essendo certo che altri avrebbero preso vivo Bonnie Reeves, incriminato e poi condannato per aver ucciso la moglie. Il figlio scontò la sua condanna a Fort Leavenworth. Quando l'Oklahoma divenne uno stato, nel 1907, Reeves diventò un ufficiale del dipartimento di polizia di Muskogee, una cittadina di quello Stato, dove militò per due anni prima di andare in pensione, sulla settantina.
Un cowboy disegnato da Lorenzo Barruscotto
Non serve spiegare che la Bonelli ha poi adattato per i fumetti gli scritti di Lansdale per creare la serie che vede alternarsi alle sceneggiature Michele Masiero, Maurizio Colombo e Mauro Boselli, ed ai disegni Corrado Mastantuono, Pasquale Frisenda e Stefano Andreucci.
Love afferma che i suoi scritti sono rivolti a chi “preferisce i fatti alla finzione” però alcuni studiosi nel corso degli anni hanno avanzato dubbi (beh, non solo studiosi ma anch’io mi sono posto qualche domanda durante le mie ricerche) sulla assoluta veridicità del libro da lui pubblicato. Come molti che si definiscono “esperti” dovrebbero sapere, e purtroppo spesso non ne sono consci (e sono meno simpatici di Deadwood Dick), non è mai una buona idea definirsi un asso in praticamente ogni cosa: cavallerizzo, domatore di cavalli, lanciatore di lazo e coltelli, tiratore provetto, combattente dalla pellaccia maledettamente dura e gran bevitore. Diamogli un mantello e lo vedremo svolazzare su nel cielo alla Superman. In tal modo si rischia di diventare un po’ come Chuck Norris: intendiamoci, io da ragazzino guardavo sempre “Walker, Texas Ranger” ed alcuni film del mitico allievo di Bruce Lee per me sono dei cult, ma col tempo è diventato non più una persona reale quanto piuttosto una sorta di eroica caricatura di se stesso, un duro certo, che potrebbe stendermi con il solo mignolo della mano sinistra, ma stranamente che rischia di perdere in credibilità tramutandosi in un eroe da romanzo, per l'appunto. Probabilmente la verità sta nel mezzo ma il nostro Nat Love era senz'altro un cowboy afro-americano dalle notevoli capacità quando c'era da sopravvivere e lottare. Lo doveva essere per davvero specialmente, purtroppo, visto il colore della sua pelle in quell’epoca.
Molti danno per certo che il Deadwood Dick di carta sia Nat Love. Io voglio continuare a considerare che Dick sia ispirato al vero Nat, ma che mantenga una sua identità di personaggio senza sbilanciarmi nel dire che sono “sicuramente” la stessa persona, specialmente dopo avervi raccontato la reale vita di Love e da dove derivi il soprannome. Ma c’è anche chi sostiene che sia stato un combattente nella Guerra di secessione, quindi di finti competenti e tangibile confusione in giro come al solito se ne trovano su tutti gli argomenti.
In realtà ci furono proprio dei dubbi anche su chi fosse il “vero” Deadwood Dick: questo era il nome di un personaggio creato da Edward Wheeler (no, non Willer), uno scrittore di “dime novels”, i famosi antesignani dei nostri fumetti che narravano esaltandole le gesta di effettivi veterani della Frontiera, molto in voga in quel tempo, ma che nel West non ci aveva mai messo piede.
Alcuni storici ritengono che Love abbia anche potuto, come dire, “far suo” il nome del personaggio di Wheeler per creare sensazione, per esaltare ancora di più le proprie imprese e gli eventi della sua vita. In sostanza affermano che Love fosse uno degli uomini che sostenevano di essere l’originale.
Però gli stessi concordano nel confermare che questa attitudine a raccontare gli eventi in un modo altisonante, in inglese si dice per l’appunto “larger than life”, non getta discredito sulla sua autobiografia perché seppur con qualche esagerazione, o iperbole per usare un parolone che indica un “salto mortale letterario”, non è pieno di una sfilza di frottole e comunque quello stile era comune ad altri romanzi che volevano considerarsi anche di maggiore levatura.
Nel fumetto è lo stesso Dick a confidare al lettore che è stato addirittura Wild Bill Hickok a dargli il nomignolo di Deadwood Dick, quando ci parla col pensiero sotto forma di didascalie presentandoci il suo pard, Black Hat Jack (non avviene nel Cartonato ma in un episodio successivo della miniserie).
D’altra parte, lo sa bene Lansdale, lo sanno anche gli addetti ai lavori Audaci e Bonelliani ma diciamocelo, lo sappiamo anche noi appassionati di West, non sempre i nomi con cui alcuni uomini della Frontiera sono passati alla Storia erano i loro veri nomi. Wild Bill non si chiamava così: all'anagrafe era James Butler Hickok e più si diventava famosi più nascevano storielle, aneddoti e miti attorno alla figura reale finchè la Leggenda diventava più vera della verità. In un’intervista comparsa sul numero 3 della miniserie Lansdale afferma che pare ci fosse un’ulteriore variante del soprannome di Love e cioè “Deadeye Dick” per sottolineare la sua micidiale mira con il fucile. Un po’ come l’Occhio di falco de "L'ultimo dei Mohicani”.
Non staremo qui a filosofeggiare ulteriormente magari perdendoci in voli pindarici su quanto la vita dei cowboys fosse pesante o quanto fosse difficile diventare nonni anche se non si aveva una stella sul petto. Ne siamo tutti ben consapevoli.
Deadwood Dick in azione. Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a FRISENDA.
Due parole su quel termine, “Audace”: viene spiegato da Michele Masiero in seconda copertina del numero 1 della serie che quella era la prima denominazione della Casa Editrice Bonelli, agli inizi degli anni 40 (intendo 1940): Gian Luigi Bonelli aveva rilevato la testata che portava quel nome iniziando ad aggregare un gruppo di artisti che sarebbero diventati maestri. Lo stesso Masiero, di cui mi permetto di riportare il pensiero, coglie l’essenza della nuova Audace: “… Azzardo e provocazione, di forma e di linguaggio”. Più chiaro di così. In pratica è e sarà un frutto della Fabbrica Bonelli ma con qualcosa di diverso, sia dal punto di vista grafico che narrativo, per tematiche approfondite e trattate sicuramente con taglio diverso dal solito, proprio come accade in Deadwood Dick con il suo linguaggio “lansdaliano sopra le righe”.
Ultima considerazione: è la prima volta che c’è un personaggio di colore come protagonista di un fumetto in Bonelli. Ok, c’era stato il simpatico collega di Nick Rider, Marvin Brown, ma era uno dei comprimari, mentre qui l’eroe o l’anti-eroe che vorrebbe essere solitario specialmente perché quando non è da solo chi incontra gli procura sempre un sacco di grane, è un ex buffalo soldier, come i pellerossa chiamavano le giacche blu di colore.
Come ho detto è proprio Dick a farci da narratore delle sue disavventure ed a commentare le tegole che gli piovono sul cranio con uno stile diretto, polveroso, irriverente, sarcastico, senza fronzoli né peli sulla lingua.
I contenuti sia come tematiche sia come realizzazione si discostano da ciò che potremmo essere abituati a leggere ma è per questo motivo che è stata creata l’etichetta Audace, la quale richiama un nome le cui radici affondano nella stessa Storia del Fumetto: crudeltà e crudezza, violenza e situazioni di innegabile impatto caratterizzano le pagine di questo volume.
Anche l'impaginazione stessa delle vignette ricalca questa impostazione, con i disegni che saltano fuori da alcune tavole o che si sovrappongono per poi frammentarsi in riquadri molto più piccoli di quelli “standard”, fino ad occupare poi, a mò di contrasto, l'intera tavola risucchiando il lettore all'interno del mondo rappresentato.
Un lazo e già si sente profumo di West. Disegno di Lorenzo Barruscotto.
Nell’avventura del Cartonato Deadwood Dick (DD se vogliamo far prima) ha a che fare non solo con bianchi razzisti ma anche con cinesi. Come sappiamo molti di loro furono impiegati per la costruzione di ferrovie e per quanto riguarda le donne, beh, purtroppo il loro destino non era dei più rosei, non fatemi andare ulteriormente nello specifico, spesso sfruttate da oppressori del loro stesso popolo. Ma Dick non è il tipo da fermarsi a banali preconcetti e se è chiaro che tra battute o convinzioni reali il suo incontro con alcuni ed alcune rappresentanti del Celeste Impero inizia basato su stereotipate credenze tramandate attorno ai fuochi dei bivacchi da “vecchi saggi” come anziani soldati un po’ sbiellati, i quali ai nostri occhi non appaiono razzisti ma semplicemente ignoranti, nel senso che ignoravano la realtà dando ascolto ad improbabili voci popolari e leggende metropolitane, considera tutti con sguardo umano, difendendo chi non riesce a farlo da solo, infondendo forza a chi ormai si dava per perso e dando speranza a chi davanti a sé vedeva una vita di privazioni, umiliazioni e si era rassegnato a considerare ogni giorno come un'inutile attesa verso una fine che non era mai troppo vicina e non sarebbe mai stata rapida o indolore. DD restituisce la dignità e la voglia di reagire a chi vuole ancora combattere per la propria vita, a chi lotta per trovare una via di scampo, e si abbatte come la folgore divina su coloro che invece erano convinti che trattare esseri umani, in questo caso neri o gialli, ma io mi sento di dire in generale uomini e donne non importa di che razza, come bestie, come scarti solo perché si era più grossi di loro fosse legittimo. Non basta dire di essere un uomo ed impugnare una pistola per essere davvero un uomo. Con un certo parallelismo nel quale non mi addentrerò nei dettagli ma che certamente coglierete, bisogna saper usare il proprio “strumento” che sia una Derringer o uno Sharps ed usarlo nel modo giusto.
DD esce dagli schemi culturali imposti dal periodo storico in cui si muove, i quali prevedevano che una persona di colore abbassasse lo sguardo o lasciasse il passo se incrociava un bianco. I bianchi di Hide and horns sono dei miserabili e forse anche proprio per questo, invece di sostenersi a vicenda, tormentano qualcuno che è più miserabile di loro, in ogni caso ingiustificabilmente. Sfogano le loro frustrazioni sui più deboli che già la vita ha schiacciato senza un ulteriore ripasso su quanto la quotidianità faccia schifo. Eppure, allora in tema di violenza e razzismo, indirizzato verso i neri, i pellerossa, i cinesi o le donne (qui di qualunque colore fossero), ed oggigiorno in ambito di bullismo, di inutile tentativo di riempire una vita che altrimenti sarebbe colma solamente di vento e sporcizia, prendono a bersaglio qualcuno a caso per dimenticarsi della pochezza che invece regna dentro e fuori della loro anima. E quando c'è chi alza la testa, dicendo “no” si offendono pure, e si arrabbiano.
Beh, quello che sta per azzannarvi è ben più pericoloso di un cane anche se vi ostinate a chiamarlo in quel modo, branco di carogne dai denti e dal cervello marcio. E’ un dannato mastino che non vede l’ora di mordervi le chiappe e trascinarvi uno ad uno nel fango come preludio di un tonfo verso un luogo molto più caldo dove c’è già Mister Satanasso pronto con l’elenco dei vostri nomi.
Lo abbiamo detto all’inizio, non è prudente fare arrabbiare uno come Dick, abbaiandogli in faccia come se fosse un animale, cosa che purtroppo negli Stati usciti sconfitti dalla Guerra civile era ancora una sorta di macabro divertimento nei confronti delle persone di colore da parte di chi non si considerava vinto ma solamente defraudato di un diritto e cioè quello assurdo di possedere altri esseri umani. Dick, e noi con lui, non è d’accordo con questa visione delle cose e se ne renderanno conto tutti. Incluso il becchino che rischierà un esaurimento nervoso per il super lavoro a cui sarà sottoposto dopo che la giustizia, nera come la notte e rossa come il sangue, avrà fatto calare la sua mano su chi se lo merita.
Come dite? Non è giustizia ma vendetta? Amigos, siamo nel West, in un West cupo e scuro come la più buia notte senza luna, siamo circondati da nemici che vogliono appenderci per “non i pollici” giusto per trascorrere una serata diversa dal solito scolandosi whisky di pessima qualità, perché non trovano una donna che voglia far loro compagnia, nemmeno pagando (tristemente non è una battuta per i tempi), o peggio un bambino di colore da sfregiare. Avete ragione, non è giustizia. E’ la resa dei conti. Deadwood Dick non è uno che cerca guai, più o meno, ma sono i guai a cercare lui, spesso sottovalutandolo perché è “solo un altro cioccolatino”. Molti dei balordi che avranno la sventura di attraversargli la strada facendo ancora cocciutamente leva sulla paura e sul razzismo che solitamente erano armi preventive efficaci per far abbassare la testa a chi credevano inferiore, si accorgeranno che c’è un “negro” che non volge lo sguardo in basso, se non per sputare sui loro cadaveri crivellati di pallottole.
Che c’è? Qui nessuno ha mai detto che Dick sia un santo: è un buono, certo, ma un buono che non bisogna provocare perché “non c’è cattivo più cattivo di un buono che diventa cattivo”. Mettete da un lato un branco di inutili bulletti di scuola e dall’altro il solito “sfigato” che viene vessato. Ora trasportate l’immagine nel West ed armate il suddetto sfigato con Colt e Winchester magari dopo avergli fatto fare un po’ di esercizio fisico spaccando legna e passando qualche annetto nell’esercito come “Soldato Bisonte”, nel Nono Reggimento di Cavalleria. (I Buffalo Soldiers erano soldati che comprendevano gli appartenenti al nono e decimo reggimento, quest'ultimo, il primo ad essere composto unicamente da uomini di colore, venne creato nel 1866 a Fort Leavenworth, Kansas). Dunque, quei bulli, sebbene siano tutt'altro che indifesi, per quanto imbraccino per lo più catenacci e sgangherate sputafuoco, sono tanti e si credono forti, come dimostrano i loro ghigni malefici e sdentati, ma la sola cosa che avrebbero dovuto capire già dalla prima occhiata alla loro “vittima” è che si trovano, tutti nessuno escluso, nella me…lma fino al collo. Ed apprenderanno assai rapidamente che sebbene il colore possa essere simile, il sapore non quadra: no, non era affatto cioccolata, era proprio...
La prossima volta meglio riflettere prima di parlare o di fare qualcosa, qualsiasi cosa “così per divertimento” perché adesso c’è qualcun altro che si “diverte” anche se, ad essere sinceri, per voi non ci sarà “la prossima volta” se non implorando il diavolo all’inferno, manica di carogne.
Nonostante (o proprio grazie a) i suoi modi piuttosto sbrigativi, continueremo a fare il tifo per il cowboy nero per l'intero racconto. Il linguaggio diretto e duro è proprio degli scritti di Lansdale e ne viene mantenuta l’atmosfera sia nei dialoghi al vetriolo sia nelle immagini. Se cercate il politicamente corretto avete sbagliato indirizzo, hermanos.
Uno dei cattivi sfoggia un sorriso ben poco accattivante.
Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a FRISENDA.
Lo stesso stile di Frisenda, se tali aggettivi possono venire associati a dei disegni, diventa più beffardo ed incisivo rispetto ad altre sue opere. Alcune scene ci colpiscono come uno schiaffo a mano aperta mentre altre sono un gancio indirizzato al nostro stomaco: il senso di disgusto per l'ignobiltà degli uomini, mentre osserviamo di che cosa sono capaci i nostri simili, susciterà non un moto di nausea ma una certa ira crescente che porterà anche noi lettori a spostare istintivamente la mano sul fianco per afferrare la pistola e darci da fare insieme a Dick per fare un po' di necessaria pulizia.
Ma non pensate di avere tra le mani un albo dedicato ad un mattoide con il grilletto facile: le armi sono sempre utilizzate per salvarsi la pelle, per proteggere chi è in pericolo, indipendentemente da sesso o razza, perciò può trattarsi di una donna che rischia una terribile fine per mano di un gruppo di rinnegati pellerossa o di uno sconosciuto moribondo inseguito da una muta di iene a due gambe che capiscono solo il linguaggio devastante di un fucile Sharps a lunga gittata.
Le azioni di Deadwood Dick sono sempre soggette al suo personale codice d'onore, che magari non sarà dei più limpidi, ma che lo porta a fare in ogni caso ciò che è giusto, mettendo a rischio la ghirba pur di perseguire il proprio ideale di giustizia, di lealtà in nome del coraggio e dell'amicizia. Ed anche di un paio di questioni di principio, che diavolo, non è mica detto che si debbano mandare giù i rospi in ogni situazione. E poi fa male tenersi tutto dentro, soprattutto quando abbiamo lasciato correre già per ben due volte. Lo dice anche il proverbio: non c'è due senza tre. Solo per chi ha l'imprudenza di far arrivare il conteggio al tre potrebbe scatenarsi un vero inferno di piombo.
Per non dire che se avete anche provato a fregarlo, beh, allora ve la siete proprio andata a cercare, caricature di hombres che farebbero venire un colpo anche a Belzebù nonché al più coraggioso dei dentisti, dato l'orrore che voi chiamate sorriso.
Dick non ha partecipato alla Guerra civile come, si è già disquisito su ciò, erroneamente qualcuno sostiene ma ne ha comunque vista anche troppa di violenza per non cercare di impedire ulteriori prevaricazioni se inciampa in soprusi o prepotenze. Affrontate con mano ferma ma anche con alcune taglienti battute.
Non si scontra solo con un paese di balordi ma è come se fosse una sorta di rivincita contro un intero modo di pensare sbagliato ed ancora troppo radicato e forse perfino inacidito dalla conclusione del conflitto fratricida tra Nord e Sud. Anche per Dick non fa differenza se uno è bianco o giallo ma solo se uno merita o no di essere pulitamente spedito all’inferno con una palla in fronte, specialmente se quell' “uno” sta cercando di farlo fuori.
Si tramuta in un vendicatore, applicando per una volta ai danni di delinquenti e balordi della peggior specie le legge del più forte e la biblica “occhio per occhio, dente per dente”, è in gamba ma non è indistruttibile (necessita di riposo e cure per le ferite riportate), è sbruffone e ne abbatte a decine ma si sa che davanti ad una bottiglia i numeri possono anche venire arrotondati per eccesso ed i ricordi con gli anni diventano un po’ annebbiati.
Prima non ho parlato di bulli a caso. Bisognerebbe capire quando è ora di finirla e soprattutto quando si è sfiorata una montagna di problemi ma in tutte le epoche c'è sempre parecchia gente che crede di cavarsela semplicemente facendo leva sull'autocontrollo altrui, insistendo invece di correre alla chiesa più vicina ed accendere un cero al suo proprio santo protettore, se esiste. Se questo metodo, vale a dire il summenzionato autocontrollo sforzandosi di lasciar perdere anche le offese o i danni più gravi, così non è nel Diciannovesimo secolo in Texas, al contrario, serve proprio da calamita per quei piccoli cilindretti di piombo calibro 45. Siamo testimoni della furia di chi non chiedeva altro che di essere lasciato in pace: Colombo mette in piedi una sparatoria che sembra interminabile, gli avversari saltano fuori da tutti i loro buchi come i topacci da fogna che sono e Frisenda realizza l'intera lunga sequenza con la maestria di un regista esperto. Il tratto del disegnatore è fluido e sicuro, il fango che ricopre le strade pare schizzare fuori dalle vignette quando un cadavere viene scaraventato a terra centrato da tre proiettili indirizzati al bersaglio grosso, qui nessuno fa sconti, e l'assordante rimbombo degli spari riecheggia nelle nostre orecchie come le silenziose ma laceranti grida di dolore lanciate da coloro che hanno completamente perso la baldanza e che ormai cercano disperatamente di non perdere anche la vita. Illusi.
Non ne usciamo con la carcassa totalmente integra ma possiamo affermare che la storia ci offre un esempio di come certe “buone azioni” vengano ricompensate. Non fatemi aggiungere altro, però posso assicurarvi che dopo un po' potreste anche non avere più energie per quel genere di... ricompense. Chi ha letto l'avventura sa di cosa parlo e chi la deve ancora leggere lo capirà non appena lo vedrà.
Tex Willer in un disegno di Lorenzo Barruscotto, ispirato all'arte di FRISENDA.
E' tempo di sfoderare l'arma segreta. Una volta saputo che mi era stata assegnata la recensione di questo Cartonato ho contattato il signor Frisenda e gli ho chiesto se potevo fargli alcune domande in merito alla sua eccellente opera artistica. Mi ha risposto in modo gentile e disponibile acconsentendo.
Ed ecco che è nata l'intervista ad uno dei più grandi artisti italiani, bonelliani e non solo. Inoltre non soltanto il signor Frisenda ha accettato di impegnare il suo tempo dandomi corda ma alla fine mi ha perfino ringraziato. Lui ha ringraziato me per l'attenzione che avevo dato al suo lavoro! Capite? Questi sono i grandi, questi sono non solo grandi professionisti ma anche grandi uomini con o senza matita in mano. Mi viene in mente il mitico John Wayne che in occasione della vincita per il suo Oscar in seguito all'interpretazione ne “Il Grinta” ringrazia anche e soprattutto il pubblico per l'affetto.
Naturalmente dopo essere rimasto senza parole sono io ad averlo ringraziato, e lo ringrazio ancora una volta, per la disponibilità, la cortesia e la precisione con cui ha partecipato all'intervista, andando a fondo su diversi aspetti, artistici e non, che caratterizzano questo spettacolare Cartonato.
Sul sito Bonelli compare una parte di tale colloquio, ottenuto per iscritto, ma qui di seguito c'è la versione completa, esclusiva di “Osservatorio Tex”.
1) Si è parlato di disguidi sulla stampa dei volumi singoli della miniserie, soprattutto il numero 3 riguardo i neri. Nel cartonato lei stesso mi ha confermato che sono avvenute correzioni. Sono state apportate anche modifiche a dettagli o aggiustamenti in corso d'opera nel passaggio dai volumi "bonellidi"?
- Sì, i problemi di stampa che avevano fortemente condizionato la resa del numero 3 (e in parte del numero 4) di "Deadwood Dick" sono stati completamente risolti nell'edizione da libreria delle due storie. Anche qualche dettaglio, sia nei testi che nei disegni, è stato modificato, ma nulla di rilevante. Si tratta di cose comuni in ogni ristampa.
2) Per creare il personaggio, la fisionomia e le caratteristiche fisiche, si è ispirato a qualche modello in particolare? Molti hanno fatto l'accostamento col "Django" di Tarantino (alcuni anche dicendo che Dick aveva combattuto nella Guerra civile). C'è qualcosa del vero Nat Love nel suo Deadwood Dick?
- Le proposte fatte negli studi per la fisionomia del personaggio di Deadwood Dick sono state varie e molto diverse tra loro. Avevo una descrizione fisica del protagonista, e anche del tipo di abbigliamento che doveva indossare, ma restava l'incognita del volto, che comunque doveva essere quello di un uomo magro ed atletico. Quello che è stato scelto alla fine era ciò che si avvicinava maggiormente alle necessità del personaggio, ma non aveva nessun riferimento particolare, neanche con il vero Deadwood Dick/Nat Love. Ogni disegnatore l'ha poi ulteriormente caratterizzato attraverso la propria e personale ottica, quindi direi che esistono tre versioni distinte di Deadwood Dick.
3) Il cartonato è arricchito da studi preparatori e un paio di prove di copertina. Forse è superfluo chiederlo, ma ha effettuato molto lavoro di ricerca e documentazione in merito ad armi, divise e vestiario prima di affrontare la realizzazione grafica?
- Sì, era necessario farlo, come lo è per ogni serie collocata in un periodo storico ben preciso. Di regola è un lavoro che si prepara prima di iniziare a disegnare, in modo da stabilire con lo sceneggiatore alcuni punti fermi, ma durante la produzione delle tavole la ricerca rimane costante e alcune scelte o modifiche fatte in corso d'opera le ho poi proposte e discusse con Maurizio Colombo. In linea di massima ho avuto comunque molta mano libera sulle tavole.
4) Lei ed il signor Colombo avete conosciuto Lansdale? O parlato con lui? Siete restati piuttosto fedeli allo stile di Lansdale, come atmosfere: ha in qualche modo interagito durante le fasi di realizzazione del fumetto?
- Io non ho conosciuto personalmente Joe Lansdale, come neanche lo sceneggiatore, se non vado errato, però Maurizio Colombo è stato uno dei primi a segnalare il lavoro di Lansdale in Italia, attraverso recensioni e articoli. Penso che i due episodi da noi realizzati rispecchino molto lo stile dello scrittore statunitense e, pur se Colombo ha aggiunto diverse parti assenti nei racconti originali, direi sempre perfettamente integrate con quel modo di scrivere e narrare.
5) La differenza tra la violenza di Deadwood Dick e quella di Tex è palese. Lei che ha anche lavorato a capolavori e testate di punta anche come Magico Vento, oltre che ovviamente per il Ranger, ha dovuto adattarsi all'inserire dettagli più truculenti, diciamo, meno edulcorati?
- Sì, lo stile narrativo dei racconti di Joe Landale contiene una descrizione degli effetti della violenza molto più evidente che in altre testate della stessa Casa Editrice. Si era consapevoli di questo aspetto mettendo in campo il progetto ed accettando di collaborarci era necessario considerarlo. Per quanto possibile ho cercato di non calcare troppo la mano sulle scene più violente, o almeno di non involgarire eccessivamente immagini già eventualmente pesanti di per sé, per quello che doveva essere mostrato. Di regola preferisco suggerire una sensazione più che descriverla nel dettaglio, ancora di più se si tratta di aspetti legati alla violenza, ma in alcune occasioni, come accade anche nel fotogiornalismo (con altre finalità, ovviamente), sono convinto che la cosa migliore sia invece non limitare nulla in tal senso. Ad esempio anche in alcuni episodi di Magico Vento, visto che la serie permetteva di farlo, inserii di mia scelta dettagli precisi di situazioni drammatiche e cruente, per sottolineare cosa significava essere davvero colpiti da un proiettile o da una freccia.
"Ehi, biondo...!"
Tuco di "Il buono, il brutto, il cattivo".
Ritratto dell'attore Eli Wallach ad opera di Lorenzo Barruscotto.
6) L'organizzazione dei disegni e delle vignette nelle tavole non segue la classica schematizzazione bonelliana. Anche in questo, “Audace” si discosta un po', mettendosi più in linea con le sperimentazioni della serie dei Cartonati alla francese di Tex. Come se le avventure risucchiassero lo spettatore, perchè da lettori diventiamo veri e propri spettatori, seguendo ed amplificando le emozioni del protagonista, a seconda che si tratti di vignette sovrapposte o di disegni che comprendono l'intera tavola senza margini. Per lei ha comportato differenze questo insolito, per gli appassionati italiani, modo di impaginare?
- L'esigenza della collana “Audace” era proprio quella di arrivare a distinguersi dalle serie più classiche della casa editrice Bonelli, e quindi anche nell'aspetto grafico, oltre che come stile, quell'intenzione doveva venire sottolineata in maniera chiara. Dal punto di vista di un disegnatore credo che tale scelta permetta una libertà espressiva maggiore, perché si possono adattare le inquadrature alla grandezza delle vignette dedicate ad ogni singolo passaggio narrativo, e questo determina qual è la sensibilità e la capacità di narrare attraverso le immagini di ogni singolo autore. Non deve però essere intesa come un'impostazione priva di regole, perché, prima di tutto e sopra ogni singola tavola, deve essere sempre tenuta presente la leggibilità del racconto visivo.
7) Quindi come artista ha "sentito" differenze nel disegnare Tex, Ned Ellis o Deadwod Dick, anche nelle emozioni che le ha dato il risultato finito?
- Sono personaggi molto differenti tra di loro, e perciò hanno necessità differenti e richiedono ai disegnatori un impegno diverso, calibrato su di loro. Tex è la quint'essenza dell'eroe, e, in sintesi, deve essere sempre rappresentato in un certo modo, perché deve comunicare, agli occhi del lettore, esattamente chi è, in ogni singola vignetta dove appare. Difficilmente lo si vedrà in posizioni sgraziate o dimesse, per quanto possa trovarsi in situazioni di difficoltà o, all'opposto, di relax. Magico Vento ha un'altra anima, ed è combattuto tra il suo passato, pieno di disordine e violenza, e la sua nuova identità di sciamano all'interno di una comunità Sioux, dove cerca di convivere con le sue capacità mentali e gli eccessi che a volte le stesse gli provocano. E' un personaggio più sofferente di Tex, ed è più facile vederlo ritratto in posizioni anche poco "eroiche".
Deadwood Dick, è, tra questi, forse il personaggio più realistico (o quello più plausibile), nel senso che vive la sua vita e le sue avventure senza filtri, come farebbe un qualunque essere umano nelle sue condizioni (un figlio di ex schiavi che si è arrangiato come ha potuto per sopravvivere, spesso male, in un mondo a dir poco ostile) ed in quelle situazioni. Dick può essere raffigurato e rappresentato anche nella maniera più mesta eppure questo non entra in contraddizione con quello che è, e anzi, spesso, necessita di essere ritratto in modi tutt'altro che eroici. Ogni personaggio è interessante da gestire, come è stimolante il lavoro che bisogna fare per portarlo sulla carta nel modo più corretto possibile.
8) Aveva già collaborato con il signor Colombo in passato?
- Sì, in una piccola storia a fumetti tratta dai racconti di un altro scrittore, Andrea G. Pinketts, e pubblicata nel volume "I vizi di Pinketts", edito dalle Edizioni BD nel 2004.
9) Lei stesso ha dichiarato che come sottofondo musicale dei disegni ci starebbe bene una colonna sonora tratta dalla "Trilogia del dollaro", specialmente da "Il buono, il brutto e il cattivo." Di "brutti" in Deadwood Dick ce ne sono parecchi. E' una sorta di parallelismo con la bruttezza interiore come accadeva per "vecchi" fumetti, mi viene in mente "Il Comandante Mark" dove i cattivi erano anche molto poco attraenti, e per sottolineare la decadenza ed il degrado di quel tempo? Alcune battute che Dick "tira" ricordano proprio quelle che Tuco o il pistolero interpretato da Clint Eastwood fanno nel film, del tipo "Quando si spara si spara non si parla!" o "Ci vediamo, idioti. E' per te." Sono presenti stupende frasi ad effetto che fanno ridacchiare lo stesso Dick quando le pronuncia, il quale, come dire, se la canta e se la suona. Un esempio lampante è quando fa fuoco sugli indiani all'inizio della storia.
- I brutti, sporchi e cattivi nelle storie di Deadwood Dick testimoniano il degrado di quella parte di mondo e in quel tempo, appunto. A differenza dei personaggi negativi di testate come "Il Comandante Mark", in questo caso sono brutti, sporchi e un po' cattivi anche quelli che dovrebbero essere i "buoni", perché tale dimensione di vita non lascia nessuno indenne.
Per il resto, sì, l'influenza del lavoro di Sergio Leone nel rappresentare un certo tipo di western credo che sia inevitabile oltre che imprescindibile. Sia Colombo che io siamo poi appassionati del cinema di Leone, e quindi ci siamo divertiti reciprocamente ad inserire rimandi precisi ad alcune sue opere, ad esempio proprio riguardo "Il buono, il brutto, il cattivo": per mia scelta, nel n. 4, in una vignetta ambientata in un cimitero si vede inciso su una lapide un nome che rimanda alla sequenza del cimitero di quel film. O ancora, per scelta di Colombo e sempre nel n. 4, dopo la lunga sparatoria notturna, quando uno dei "cattivi" viene trascinato via da Deadwood Dick, il malcapitato gli urla contro le parole che Tuco rivolge a Joe, il “Biondo”, nel finale del film.
10) Parlando di musica c'è una canzone di Bob Marley che si chiama "Buffalo Soldier" che pare sia stata creata proprio ispirandosi a Nat Love. A me sovviene anche "I shot the sheriff" però nella versione più blues di Eric Clapton. E certe visuali da lei create riportano alla memoria, sebbene mi renda conto che c'è un po' di anacronismo come date e non abbiano impronta western, canzoni blues struggenti, che hanno le loro radici però proprio nelle piantagioni dove lavoravano gli schiavi. Volendo per forza trovare un parallelismo con Tarantino per via dell'elemento diciamo splatter, per quanto anch'io abbia pensato alle battute dei film di Sergio Leone quando ho letto la serie per la prima volta, personalmente citerei ad esempio lo stile delle caratterizzazioni di Samuel Jackson come atteggiamento da duro (a volte anche oscuro) ma che non può non far sorridere sarcastici. Condivide questo punto di vista o è solamente una mia impressione che non c'entra nulla?
- Qualche affinità anche con la narrativa di Quentin Tarantino potrebbe esserci, certo, ma qui potrebbe rispondere meglio forse Colombo. Almeno personalmente i miei riferimenti sono stati altri, ovvero quelli che uso comunemente per mettere in scena il West, tra fotografie d'epoca o i dipinti dei grandi illustratori dell'Ovest americano.
11) L'ultima curiosità di questa intervista verte su aspetti prettamente tecnici: quali sono le dimensioni delle tavole su cui solitamente lavora? Imposta il lavoro tutto a mano con pennini e matite e quali sono indicativamente tempi di realizzazione di un lavoro simile?
- Per quanto riguarda le tavole: il formato cambia a seconda della pubblicazione dove verranno stampate, ma di regola mi oriento su una gabbia di 22 x 31 cm.
Lavoro in maniera tradizionale, quindi disegno con matite, pennarelli, pennelli, china, tempera e altri strumenti; per ogni tavola in media impiego due giorni di lavoro per completarla, ma questo dipende dalle difficoltà che propongono le scene che bisogna illustrare.
Ritratto di Sergio Leone ad opera di Lorenzo Barruscotto
Qualche notizia sugli autori del volume.
Pasquale Frisenda: classe 1970, per il disegnatore non servono presentazioni troppo elaborate, parlano le sue opere. Ha lavorato sul “Ken Parker Magazine” ed il suo esordio in Bonelli avviene nel 1996 con Magico Vento, con la storia “La bestia” scritta da Gianfranco Manfredi, creatore del personaggio. A partire dal numero 32 ne diventa anche il copertinista fino al numero 75. Ma i lettori di Tex lo conoscono ed ancora oggi gli offrirebbero da bere nel più vicino saloon per un capolavoro che rimane incastonato come uno smeraldo di immutata bellezza in una corona, riconoscibilissimo anche in mezzo ad altri gioielli ad impreziosirla: il Texone “Patagonia”, il numero 23, uscito nel 2009 su sceneggiatura di Boselli, ha raggiunto i cuori degli appassionati del Ranger conquistandosi un posto d’onore tra i migliori albi di tutti i tempi. Torna a far perdere litri di acquolina in bocca proprio ai Texiani con la celebre avventura in due albi dedicata ad un altro personaggio realmente esistito, il Giudice Bean. Ogni volta che compare il suo nome sappiamo che si va sul sicuro e se anche la storia dovesse avere qualche intoppo nella trama, le splendide chine del maestro Frisenda ce lo farebbero dimenticare trasportandoci in atmosfere fantastiche, come direbbe il buon Kit Carson, “nel tempo di dire amen”.
Maurizio Colombo: nato nel 1960, autore in forza alla Bonelli, inizia a lavorare come sceneggiatore per Mister No, poi Nick Raider e Zagor. Nel 2000 crea, insieme a Boselli, Dampyr. Inoltre, come nota personale, posso aggiungere che è alla mano, simpatico e cordiale, avendo avuto il privilegio di conoscerlo di persona, proprio in Redazione, in via Buonarroti.
Ritratto di Maurizio Colombo ad opera di Lorenzo Barruscotto
Dopo la conclusione dell'avventura a fumetti, il volume presenta alcuni “contenuti speciali” di rilievo: prove di copertina, studi sul personaggio, sulle sue armi, vestiti e cavallo da parte di Frisenda ed un articolo realizzato da “Luca Crovi e Saba Pezzani contenente un'intervista a Lansdale. La cura degli approfondimenti di cui il disegnatore ha parlato prima è dimostrata dall'accuratezza della ricerca effettuata che si riflette sui dettagli con cui vengono arricchiti i personaggi. La versione soldato di Dick è fedele alla realtà storica dal moschetto calibro 58, modello 1861, alle parti della divisa o della sella fino al coltello Bowie ed alla pistole, Colt e Schofield.
Il fucile se l'occhio non mi tradisce dovrebbe essere uno Springfield modello 1861 a canna rigata, distribuito all'esercito dell'Unione durante la Guerra di secessione. Di solito ci si riferisce ad esso come “Springfield”, perchè il suo originario luogo di produzione era quella cittadina del Massachussets. E' stato il fucile più usato dall'esercito del Nord per via della sua gittata, della sua precisione e della sua potenza ed affidabilità.
Il modello 1861, la cui canna era lunga 40 pollici (101,5 cm circa), sparava proiettili calibro 58, ed il suo peso totale raggiungeva quasi le 9 libbre (circa 4 kg). La gittata utile si aggirava intorno ai duecento o trecento metri. Truppe addestrate di tiratori scelti erano in grado di sparare con una cadenza di tre colpi al minuto, ed il tiro poteva essere preciso fino a 500 metri, sebbene in guerra spesso la distanza di combattimento fosse spesso assai più ravvicinata. La tacca di mira consisteva in un meccanismo "a foglia" (cioè a lamina metallica regolabile in altezza) a differenza di quella usata nell'Enfield modello 53, usato dai Confederati.
A causa dell'aumento della domanda di armi, per far fronte alle esigenze belliche a Springfield diedero in appalto la costruzione dell'arma anche a fabbriche private. Tra queste la più importante era la Colt, che apportò varie piccole modifiche tanto che si parla di "modello 1861 Colt special". Alcune di queste furono poi adottate anche per le armi fabbricate dalla stessa Springfield.
La baionetta dell'arma era del tipo con innesto a manicotto sulla canna, se le mie fonti non mi ingannano a sezione triangolare.
Parlando di revolver invece, i primi modelli della “moderna Colt”, correva l'anno 1873, avevano la canna di 7,5 pollici, 19 centimetri, (il modello "Cavalry", quello usato da Dick) o 5,5 pollici, 14 centimetri, (il modello “Artillery”), il castello in accaio, il tamburo con le tipiche scanalature ed il calcio in legno. Non serve dirlo ma il calibro era 45, rendendola la pistola più potente sulla piazza. Ma ben presto vennero introdotti altri calibri in modo da andare incontro alle esigenze della clientela, non solamente composta da militari. Infatti la Colt Single Action del 73 insieme al Winchester sembra essere stata l'arma riprodotta con il maggior numero di calibri, più di 30. E forse è anche per questo che nacquero diversi soprannomi (Peacemaker, Equalizer, Frontier per la pistola o Yellow Boy per il fucile tanto per dirne alcuni). Senza contare la comodità della interscambiabilità delle pallottole per certi calibri, come ad esempio lo stesso Tex enuncia al lettore nel ColorTex “E venne il giorno”.
Il peso della Colt variava a seconda delle modifiche tra il chilo ed il chilo e mezzo, quindi era stata ulteriormente alleggerita rispetto alle versioni precedenti. La tacca di mira compariva sul telaio superiore al tamburo sotto forma di una lieve incisura mentre il mirino era divenuto una lamina “in cima” alla canna. Giusto per completezza: il tamburo poteva ruotare solamente se il cane veniva mantenuto in posizione di sicurezza o mentre si caricava l'arma ma non quando era armato, bloccato da un gancio che impediva malfunzionamenti o spari involontari.
Modifiche le subirono sostanzialmente tutte le parti, dalle canne ai materiali e divenne la pistola simbolo di un'Era.
La calibro 45 a parte i suoi coloriti nomignoli, “all'anagrafe” si chiamava "Colt Single Action Army 73", la classica “calibro 45” mentre la "Frontier" era stata introdotta parallelamente alla presentazione del nuovo Winchester dello stesso anno, in modo che le munizioni fossero compatibili, cioè veniva armata con cartucce calibro 44. La produzione effettiva di questa pistola iniziò qualche anno successivo al 73, quando anche il fucile aveva visto nascere il suo "fratello maggiore", la versione 76, con il castello della culatta non più in ottone, e quindi non giallo, ma in acciaio, grigio. "Colt Frontier Six-Shooter" era il nome completo di tale sei-colpi.
Tutto molto interessante, voi direte, ma cosa diavolo significa “azione singola” (in inglese “single action”)? E' presto detto: per fare fuoco bisognava alzare il cane, che era stato integrato con il percussore. Ora non è più così però all'epoca il grilletto consentiva l'abbassamento del cane ma non il suo armamento.
L'altra pistola che vediamo invece non è una Colt, sebbene si tratti di un'arma a tamburo, ma è una Smith & Wesson: anch'essa arma single action, iniziata a produrre dal 1870. Ci sono state molte varianti tra cui il modello cosiddetto russo, perché fornito a militari dell'impero sovietico ed il modello “Schofield”, che prende il nome dal maggiore George Schofield, il quale fece le sue proprie modifiche al revolver in modo da renderlo adattabile al servizio in Cavalleria, come ad esempio ottenere un cilindro più corto rispetto alla Colt. La Smith & Wesson ridisegnò l'arma nel 1875 includendo tali modifiche anche in vista di commissioni da parte dell'esercito. Di calibro 44, pesante 1,3 chili, aveva la canna lunga 16,5 centimetri (6,5 pollici). Vennero messe in commercio anche Schofield con altri calibri, tra cui il classico 45.
Il regista John Ford seduto guarda il "suo" West. Ritratto di Lorenzo Barruscotto.
Siamo al termine di questa disamina. Per riassumere lo stile di Deadwood Dick, condensando con un paragone cinematografico tutto quello che abbiamo detto e letto finora, potremmo sostenere che Tex sta a John Ford come Dick sta a Tarantino, senza gran timore di sbagliarci.
Dato che neanche al simpatico e tosto american-african cowboy piacciono troppo gli addii pieni di parole quando basta alzare la mano e gli sguardi sono più che sufficienti per capire e farsi capire, neanch'io la allungo ulteriormente.
Un saluto, una promessa fatta col cuore: l'arte di questo volume supera perfino la perfezione arrivando a toccare le corde del nostro animo, facendoci sentire proprio lì, in quel saloon, davanti a quel tizio che ci sta implicitamente, e nemmeno troppo, chiedendo un altro giro per raccontarci ancora di lui e di cosa ha combinato quando cavalcava per le piste del West.
Hasta luego
Dal racconto “Hide and Horns” di Joe Lansdale
Soggetto e sceneggiatura: Maurizio Colombo
Copertina e disegni: Pasquale Frisenda
Lettering: Marina Sanfelice