- Categoria: Critica d'Autore
- Scritto da Giuseppe Pollicelli
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Da Tiramolla a Geppo, i rivali tricolori di Disney
di Giuseppe Pollicelli*
Ormai sono un ricordo e, per rammentarsene, bisogna avere almeno una trentina d’anni, ma per più di tre decenni hanno riempito le edicole del nostro Paese e regalato ore di svago a milioni di bambini italiani. Avevano copertine coloratissime e ospitavano le vicende di creature dai nomi fantasiosi quali Cucciolo, Frugolino, Tiramolla, Trottolino, Chico Cornacchia, Soldino, Nonna Abelarda, Geppo: parliamo dei cosiddetti “giornalini”, quegli albi tascabili pubblicati in Italia che, dall’inizio degli anni Cinquanta sino ai primi anni Novanta, quando si sono progressivamente estinti perché non più compatibili con i gusti e le esigenze delle nuove generazioni, hanno presentato storie a fumetti aventi come protagonisti decine di personaggi (in prevalenza animali antropomorfi) disegnati con un tratto pupazzettistico di matrice disneyana.
Il fumetto umoristico destinato ai ragazzi non è solo un tassello rilevante della nostra editoria: per le dimensioni raggiunte e per il numero di intelligenze coinvolte (tra sceneggiatori e disegnatori) costituisce un capitolo significativo, ancorché misconosciuto, nella storia della cultura italiana del secondo Novecento. Tutto ha origine nel 1949, quando la Mondadori decide di pubblicare i fumetti della Disney nel pratico formato pocket, lo stesso di «Selezione del Reader’s Digest», dando così vita al periodico «Topolino»: tale è il successo della testata mondadoriana che presto vari editori e tipografi italiani decidono di seguirne le orme, dai milanesi Ugo Dal Buono, Giuseppe Caregaro e Gino Casarotti al romano Gabriele Gioggi. Costoro ingaggiano tanti giovani autori a cui chiedono di ideare vicende e caratteri che possano competere con quelli della Disney, ponendo così le basi per la nascita di una straordinaria scuola che è appunto quella del fumetto popolare italiano di genere comico. Una scuola che farà peraltro le fortune proprio dei comics disneyani, visto che molti nomi importanti (Giovan Battista Carpi, Luciano Bottaro, Giulio Chierchini, Tiberio Colantuoni) hanno a lungo diviso il loro lavoro tra le collane della Disney, delle cui tavole a fumetti l’Italia è da sempre il maggior produttore mondiale, e quelle concorrenti.
A uno dei personaggi più rappresentativi del fumetto pupazzettistico italiano, il già citato Tiramolla, inventato nel 1952 (per la casa editrice Alpe di Milano) dal giornalista Roberto Renzi e dal disegnatore Giorgio Rebuffi, viene ora dedicato un ricco volume che celebra i sessant’anni del famoso “figlio del caucciù e della colla” attraverso una selezione ragionata di episodi risalenti al quadriennio 1953-1956 e finora mai ristampati (Tiramolla, Ed. Annexia, pp. 336, euro 12, www.ottag.it). L’antologia, che contiene storie firmate sia da Renzi e Rebuffi sia da altri due ottimi interpreti come Umberto Manfrin (in arte Manberto) ed Egidio Gherlizza, è impreziosito dalle introduzioni di Alfredo Castelli e del fumettologo Luca Boschi, il quale scrive: «L’enorme numero di facoltà che Tiramolla dimostra di possedere ne fanno quasi un supereroe speciale, molto “italico”, ma dalle radici ben fondate nella tradizione dei comic books americani».
Di sicuro il pupazzettismo italiano ha offerto, specie all’inizio della sua parabola, prove alterne di sé, anche per le povere risorse e i tempi stretti con cui era realizzato. Tuttavia è fuori discussione il suo valore complessivo, sociale e artistico. C’è poi da dire che, pur nelle sue ingenuità strapaesane, riflesso di un’Italia in via di modernizzazione e in gran parte ancora rurale, esso è stato un interprete sorprendentemente veritiero di abitudini di vita e di un certo carattere tipicamente nostrani che sono, oggi, in larga misura scomparsi. Non solo: benché essenzialmente derivativo rispetto ai modelli americani, il nostro fumetto comico (un po’ come il nostro cinema commerciale e di genere) ha comunque saputo veicolare contenuti originali. Il desiderio di emulare qualcuno o qualcosa, del resto, è segno indiscutibile di vitalità e di disponibilità al rischio. Una disponibilità che oggi, un po’ in tutti i contesti creativi, in Italia latita, fors’anche perché il mercato, globalizzandosi (e influenzando così in modo decisivo i gusti e l’immaginario di milioni di giovani consumatori), non ammette più surrogati, imitazioni e proposte “devianti” bensì solo creazioni istituzionali, mainstream e potenzialmente multimediali: sfruttabili, cioè, sia sulla carta (che è anzi il business più ridotto) sia su grande schermo e nei videogiochi.
*Articolo pubblicato originariamente su “Libero” del 23 novembre 2012. Per gentile concessione dell'autore.