- Categoria: Critica d'Autore
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Analogie kafkiane tra Egon Schiele e Angelo Stano
Le atmosfere gotiche nell’opprimente angoscia di un comune tratto artistico
di Roberto Scaglione
Forse non aveva tanto torto Hugo Pratt a definire il fumetto quale “letteratura disegnata”, con un chiaro omaggio autoreferenziale alle proprie indelebili opere ed in particolare alla più rilevante, quel Corto Maltese che lo rese celebre come uno dei più apprezzati autori di vignette (“fumettaro” è il termine con il quale amava definirsi) al mondo. Il marinaio, protagonista dell’omonimo fumetto, rappresentò invero il vertice artistico della sua produzione, quella maturità che rimanda a nobili richiami letterari quali Lewis, Dumas, Melville, Conrad e Cooper; e fumettistici quali Milton Caniff e la “linea chiara” franco-belga, che ha contribuito in modo indelebile ad unire il fumetto d’autore con quello popolare chiarificando un iter poi riscontrato in Italia da Ken Parker, conseguendo il proprio pieno compimento nell’opera di Dylan Dog. Questo, nato da un’idea di Tiziano Sclavi, vide alla partecipazione grafica Angelo Stano (autore del primissimo episodio della serie e, almeno nella prima fase, anche delle storie più biografiche), scelto per il suo tratto graziato, figlio diretto della nobiltà espressiva del pittore austriaco Egon Schiele. Costui, inizialmente allievo-pupillo di Gustav Klimt dalla cui personalità viene dapprima influenzato, si discosta in seguito dal sontuoso stile dell’Art Nouveau (e dalle teorie proprie della “Secessione Viennese”) imperniandosi su un proprio originale gusto figurativo più duro e violento, sebbene profondamente sensuale, visibile in quelle sue opere erotiche raffiguranti il degrado della decomposizione umana, esterna ed interna, laddove un’arte non più rinchiusa negli ambienti classici, si riversa nella quotidianità e nel vissuto. Forte di una mirata distorsione figurativa, con stile espressionista dipinge la sessualità, rinvenibile nelle nudità fisiche dei dipinti quale metafora di un’ossessione erotica associata ad una solitudine angosciosa volta ad esprimere un disfacimento psicofisico che vive un costante contrasto tra la vita e la morte, in quella stessa sospensione in cui si agitano i celebri zombie disegnati da Angelo Stano nel primo numero di Dylan Dog, “L’alba dei morti viventi”.
Qui si delinea persino un nuovo modo di rappresentazione grafica di questi esseri, i quali assumono una forma pseudolatente di consapevolezza tale da farli rivivere nell’azione lenta che si riedifica e migliora partendo proprio dall’inquietudine espressionista di estrazione tedesca, di cui Stano assimila l’ideologia oltre alla mera forma grafica che allude all’immaginario proprio del gotico medievale tedesco. Capace dunque di soffermarsi piacevolmente su soggetti malati la cui scomposta fisicità richiama opere come “Madre defunta”, “Madre con due bambine” e molte altre di Schiele che s’incrociano ed incastrano stilisticamente con le tavole di Dylan Dog realizzate da Stano, nel cui stile intervengono (oltre alle influenze di Hugo Pratt, Di Gennaro, Battaglia, Uggeri e Toppi ed il Toulouse-Lautrec del primo Impressionismo) sia la professionalità in qualità di disegnatore di fumetti, che una personale passione per l’arte e la ricerca iconografica con particolare predisposizione, su tutti, proprio per le illustrazioni di Schiele, preferito per il rigore formale giacché, come sostiene lo stesso Stano: “I maestri che ho citato, infatti, propongono tutti una estrema chiarezza del tema rappresentato, senza complicazioni formali che pregiudichino la leggibilità. Non voglio dire che siano “semplici”, soltanto che il sotto-testo grafico, le raffinatezze formali, non prevalgono sull’obiettivo principale dell’artista, che è quello di raccontare per immagini. Io credo, per meglio dire, “spero”, di riuscire a fare altrettanto disegnando per Dylan Dog. Mi piace pensare che le mie fonti di ispirazione, che non sono esplicitate e che, se colte, costituiscono per il lettore un elemento in più, ma non un elemento indispensabile alla comprensione, siano come una specie di linfa segreta, che sedimenta nel profondo per rilasciare poi, secondo necessità, il suo nutrimento. Una sorta di “caverna del tesoro” personale, cui attingere per arricchire il mio percorso espressivo”.
Un percorso che viene arricchito infatti principalmente da Egon Schiele, che Stano trova formalmente più prossimo, rivedendone e adottando talune soluzioni tecniche, tanto forti e innovative da riprenderle nel bianco e nero del fumetto, in cui ha trasbordato l’espressività del segno strusciato che da i grigi, tecnica che ben si addice all’aura di ambiguità e mistero che circonda l’icona emblematica di Dylan Dog. La cui rallentata azione narrativa viene accompagnata da una forza grafica altrettanto moribonda, dovuta alla profondità e alla compostezza formale che il disegnatore attinge da un’enigmatica oscurità umana, che riflette l’atmosfera propria di una contemporaneità tenebrosa, in cui sono le menti e i corpi ad esprimersi non tramite i classici dialoghi, bensì nelle emozioni che si producono in questi labirinti di paura in cui ciascun personaggio cerca di ritrovare contemporaneamente la retta via e se stesso. Ma come un parallelismo nei dipinti di Schiele, l’umanità in Dylan Dog sembra perduta nell’avvinghiarsi in erotiche pose che l’eros conoscono ignorando l’amore; nei ritratti umani che delirano angoscia, nelle spiccate personalità di donne boriose e in quelle non certo marginali delle controparti più fragili, dove chiaramente si evince come l’interesse preponderante dell’artista austriaco sia il corpo. Analizzato previa una moderna introspezione psicologica degna della psicoanalisi di Freud – a lui contemporaneo – e rileggendo l’uomo attraverso una semiotica sensuale che dischiude e rivela l’inconscio disarmonico che rompe i tradizionali canoni estetici, lascia trasparire l’io profondo dell’artista, abile ad invadere la tela per poi presto separarsene, non prima d’aver fermato i corpi in forme contorte, quasi dolcemente ossessionate da linee che accusano la malinconica sofferenza di un uomo allo sfacelo, in figure dove protagoniste sono talvolta forme infantili che si rivelano disinibite: in contrasto alla fittizia morale di una borghesia corrotta che nega la tensione erotica esistenziale permeabile dall’aspra ruvidità delle cupe tele di Schiele. Dalle quali traspare quindi una provocatoria libertà espressiva unita a un simultaneo senso drammatico che offre, attraverso un tratto rapido, secco e nitido, la violenta nudità dell’animo, che si manifesta sotto forma di un’infinita angoscia di vivere molto contemporanea e che appunto fa da fondamento allo stile grafico di Stano, che riprende tale icona del delirio ripercorrendola ma anche riadattandola al breve e minuscolo formato in sequenza del fumetto, ma nondimeno nelle copertine.
Dapprima cromaticamente più scialbe per effetti tipografici, queste diventano con gli anni verosimilmente delle opere d’arte, piccoli quadri che si servono delle colorazioni acquerellate con il contributo dell’apposito software, volto a perfezionarne le sfumature gotiche che vogliono in queste ogivali icone dell’angoscia un archetipo kafkiano. Giacché è proprio nella dimensione kafkiana del dolore l’unico minimo, anzi minimale, comun denominatore espressivo di una matrice ideologica che verte su un soggetto oppresso e soppresso facile a prestarsi a oggetto di analisi grafica, sintetizzato nelle continue metamorfosi di un tratto morbido e incisivo, pregno di neri e sporcature che sperimentano, nella terza gradazione di colore, il grigio così ottenuto, la vera caratterizzazione dei personaggi. Che Angelo Stano si sia ispirato e quindi velatamente rifatto a Egon Schiele non vi è ormai dubbio, se non altro per l’appartenenza a due periodi storici diacronici che vogliono il pittore austriaco antecedente all’artista italiano. Che Schiele si sia ispirato a Kafka e che entrambi gli artisti europei abbiano tratto giovamento dall’ideologia del celebre letterato ceco, è ancor più indubbio, nella paradossale e angosciante situazione implicante un soggetto impedito nell’agire minimo sul duplice versante corporale e psicologico, in questo apparentemente assurdo contrasto che, dipanandosi quale irragionevole opposizione, ne rivela una profonda foggia.