Fumetto d'Autore ISSN: 2037-6650
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Eccetto Topolino: quella strana diffidenza nei confronti dei comics

eccettotopolinodi Roberto Alfatti Appetiti*
 
Il fumetto d’avventura festeggia oggi il suo settantanovesimo compleanno. Sì, perché gli “storici” ne fanno convenzionalmente coincidere la “nascita” con l’uscita – il 17 dicembre del 1932 – del settimanale milanese Jumbo, edito da Lotario Vecchi, pioniere dei comics d’importazione e “papà” dell’Audace, la casa editrice le cui redini saranno prese nel 1940 da Gian Luigi Bonelli. Otto pagine di tavole a quadretti, come venivano definite le storie di narrativa grafica. Ed erano tutt’altre storie, rispetto a quelle del Corriere dei Piccoli.
I nuovi giornaletti, infatti, sfuggivano a ogni controllo “pedagogico” e potevano essere acquistati direttamente dai ragazzi al prezzo popolare di venti centesimi. Un successo editoriale talmente clamoroso che persino la Chiesa si vedrà “costretta” a gettare nella mischia Il Vittorioso, periodico allineato al regime e realizzato completamente da sceneggiatori e disegnatori italiani, che troverà nella saga di Romano il legionario, sintesi di patriottismo e clericalismo, il suo eroe principale. Tempo due settimane e il 31 dicembre 1932 fa la sua comparizione nelle edicole Topolino, all’apice della sua gloria mondiale, pubblicato dalla Nerbini di Firenze, la casa editrice che due anni dopo lancerà L’Avventuroso, capofila di una trentina di pubblicazioni a fumetti. Una casa editrice al di sopra di ogni possibile accusa di esterofilia. Suo il foglio satirico Il 420 su cui il fondatore Giuseppe Nerbini, a scanso di equivoci, aveva pubblicato una foto in cui l’intera famiglia ostenta orgogliosamente la camicia nera. A chi, in nome dell’autarchia culturale del fascismo, si farà feroce avversario del fumetto americano, l’erede designato, il figlio Mario, non mancherà di far valere il riconosciuto status di fascista ante marcia.
 
Un personaggio singolare: mentre il regime concede laute sovvenzioni alla stampa, lui procede per conto suo, senza corsie preferenziali né denaro pubblico, contendendosi personaggi e storie inglesi e americane con gli altri editori. Se Vecchi si assicura Braccio di Ferro, lui risponde con The Phantom e Cino e Franco, sbaragliando la concorrenza. Almeno fino a quando Mondadori, di fatto l’editore del regime – cura Primato, la rivista culturale diretta da Giuseppe Bottai e stampa in milioni di copie i settimanali di partito Il Balilla, La Piccola Italiana, Donna Italiana e Passo Romano – gli strappa l’esclusiva dei diritti per Mickey Mouse.
 
«Mario Nerbini, per coraggio editoriale e fiuto, rimane il vero padre fondatore del fumetto in Italia». Parola di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama, che hanno dato alla luce la più dettagliata analisi sinora pubblicata sull’affermazione, negli anni Trenta, della cultura del fumetto in Italia e sul grande sforzo finanziario, organizzativo e creativo con cui «la flottiglia corsara delle case editrici artigianali, sorrette dalla passione» cercarono di elevare il fumetto ad autentica industria culturale, creando anche intrecci col mondo del cinema. Eccetto Topolino (Nicola Pesce editore, pp. 432 €.35) è il frutto di tale lavoro: materiali d’archivio, imponente apparato iconografico e inediti retroscena restituiscono non una mera antologia di personaggi, ma un’originale prospettiva che intreccia le vicende culturali, politiche e di costume del paese. «Ne emerge – scrive Mimmo Franzinelli nella prefazione – il suggestivo ritratto di una particolare dimensione dell’Italia negli anni del consenso: popolare e colta, giovanile e non solo».
Il titolo fa riferimento (e chiarezza) rispetto a una leggenda: quando nel 1938 Ezio Maria Gray, per conto del ministero della cultura popolare, sottopose all’esame del duce un elenco delle pubblicazioni da sopprimere, accanto al nome di Topolino Mussolini avrebbe apposto un secco “no”. Romano Mussolini nell’intervista, contenuta nel volume (datata 1995), non conferma, ma neanche smentisce. Una cosa, tuttavia, tiene a sottolinearla: il padre apprezzava Disney. Il figlio del duce, scomparso nel 2006, ne ricorda la visita in Italia nell’estate del 1935.
 
“Il mago di Burbank” venne ricevuto con grande cordialità a Villa Torlonia dall’intera famiglia e fece omaggio ai figli del capo del governo – tutti disneyani convinti – di un topolino di legno alto come un bambino di dieci anni. «Lo abbiamo sempre tenuto in casa – ricorda Romano – e ne eravamo orgogliosissimi. Si inquadrava bene nel nostro amore per i fumetti, sottolineato dalle mie peregrinazioni presso cartolerie ed edicole. Ne avevamo veramente tanti, pagati tutti di tasca nostra. Al primo posto c’erano le creazioni di Disney, ma anche Braccio di Ferro, Mandrake, Cino e Franco e l’Uomo Mascherato, cui invidiavo la fidanzata, Diana Palmesi (Palmer nella versione originale), forse la più bella delle belle nel mondo dei comics. Poi, come altre cose, ci è stato portato via».
Quando nacque un figlio a Vittorio Mussolini (che fu anche supervisore del film di Goffredo Alessandrini Luciano Serra, pilota, pubblicato nella versione a fumetti nel 1939 da Walter Molino sul settimanale Paperino, a conferma dei buoni rapporti tra i Mussolini e il mondo dell’editoria per ragazzi) si pose il problema di che nome dargli. Vi fu una specie di consiglio di famiglia. Romano e Anna Maria proposero il nome di Guido. A ispirarglielo, come simbolo di forza e coraggio, fu la lettura delle avventure di Brick Bradford, il quale, ribattezzato Guido Ventura, impazzava sulle pagine di Topolino. «Queste cose logicamente non le sa nessuno – dice Romano – ma, pur essendo i più piccoli, noi venivamo ascoltati». In barba alle versioni ufficiali, pertanto, il primo nipote del Duce prese il nome anche da uno dei grandi eroi di carta della “epoca d’oro” dei fumetti.
 
Difendere Topolino, tuttavia, non sarebbe stato facile neanche per il duce. «Topolino veicola in quegli anni lo spirito e la prassi del New Deal rooseveltiano, che per il suo dirigismo economico può forse aver trovato delle sponde sensibili in un certo ambiente fascista di “sinistra” – scrivono gli autori del libro – ma che dal 1938 in poi si colloca senz’altro sul versante ideologico opposto a quello dell’asse Roma-Berlino».
Ad assumersi l’onere della difesa del celebre topo, si fa carico il piccolo Romano. È lui a protestare con il sottosegretario Mezzasoma. «Guarda Ferdinando, ci sono due cose che mi sembrano assurde: non potere ascoltare il jazz e che non si possano leggere fumetti come prima». Non solo: Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, affronta più di una volta il collega della cultura popolare Dino Alfieri per difendere Flash Gordon. Giovanni Gentile, massimo intellettuale organico del fascismo, prende carta e penna e scrive a mano una raccomandazione per Nerbini affinchè il duce riceva quel «benemerito cui si deve la pubblicazione di giornaletti deliziosi».
 
Sta di fatto che, prima della temporanea sospensione per gli eventi bellici, Topolino andò avanti con le sue avventure per un bel po’. L’ultima puntata di Topolino e l’illusionista venne riportata sull’omonimo settimanale nel numero 477 del 3 febbraio 1942, ovvero a distanza di un mese e ventitre giorni dalla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti. Censura che, va detto, non viene affatto allentata dopo la caduta di Mussolini, con il governo Badoglio che conferma il bando a Disney e ai gialli. Censura cui farà seguito, nel secondo dopoguerra, una persistente quanto ingiustificata diffidenza nei confronti del fumetto. 
 
*Questo articolo è apparso originariamente su Il Secolo d'Italia del 17 dicembre 2011 e on line è reperibile anche sul blog dell'autore.

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