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Italia da fumetto: dall’analisi del libro di Francesco Fasiolo ad un discorso su Graphic Novel e Graphic Joournalism (2 di 4)
di Giorgio Messina
La prima parte potete leggerla QUI.
Nonostante già dal titolo si dichiari il manifesto programmatico di questo articolo in quattro parti, provvediamo a sgormbrare ulteriormente il campo da dubbi vari e avariati e prendiamo il toro per le corna. L'uscita del libro di Francesco Fasiolo, “Italia da fumetto" (sottotitolo: graphic journalism e narrativa disegnata nel racconto della realtà italiana di ieri e di oggi”, Tunuè, collana Lapilli, marzo 2012) è un'ottima occasione per cercare di intavolare una discussione critica che travalica il saggio stesso.
Il fatto che il saggio realizzato dal giornalista di La Republica affronti in un tomo di più 300 pagine il giornalismo a fumetti - pardòn, graphic journalism, come recita il sottotitolo linguisticamente cerchiobottista – e soprattutto quello “made in Italy” senza però mai riuscire a farne davvero una accurata analisi critica, ma finendo per (auto)limitarsi solo ad una superficiale panoramica di autori e titoli, glissando spesso sull’essenza dei contenuti, funge da chiave di volta per mettere (una volta per tutte) sotto la lente di ingrandimento un genere – quello appunto del giornalismo a fumetti/graphic journalism all’italiana - che per lungo tempo è sfuggito a qualsiasi tipo di analisi finendo trincerato dietro lo scudo del politicamente corretto e del banabuonismo dagli stessi autori che ne hanno (ab)usato gli stilemi e i contenuti.
Francesco Fasiolo nel suo saggio non si addentra praticamente mai nell’analizzare i libri che cita, ma si accontenta principalmente solo di declinare delle semplici “regolette” in cui inquadrare il “fenomeno” del graphic journalism.
Riferendosi al graphic journalism (l'inglesizzazione in questo caso ha lo scopo di nobilitare ancora di più il genere), Fasiolo scrive: «Lo scopo primario di questi fumetti non è narrativo, ma cronachistico-informativo. È un fumetto che ha poco a che vedere con la fiction o con l’intrattenimento. Ha lo stesso scopo di un articolo di giornale o di un video reportage: raccontare, nella maniera più chiara possibile, un fatto o un fenomeno, con taglio cronachistico». A proposito del rigore giornalistico, il saggista scrive: «rigore giornalistico non vuol dire, come detto, assoluta imparzialità. Il reportage a fumetti spesso racconta una storia dal punto di vista di chi scrive. L’importante è che questo venga dichiarato ed esplicitato.» E ancora: «rigore giornalistico vuol dire rispetto ed esplicitazione delle fonti. Tutto quello che è raccontato deve essere verificabile».
Ma la pratica libraria a volte è cosa assai diversa dalla teoria saggistica e così non è difficile costatare che i libri a fumetti comunemente intesi come “graphic journalism” non rispettano i rassicuranti paletti predisposti dallo stesso Fasiolo. Prendiamo ad esempio il volume “Piazza Fontana” pubblicato da Becco Giallo.
Fasiolo nel suo libro gli dedica solo queste sintetiche righe: «Francesco Barilli e Matteo Fenoglio in Piazza Fontana si occupano, con uno stile grafico che richiama la linea chiara francese, della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, con interviste a testimoni e parenti delle vittime».
In realtà “Piazza Fontana” è un ottimo esempio di sconfessione delle regole delineate dal Fasiolo stesso. L’elemento principale del volume sceneggiato da Barilli (che si definisce “mediattivista”) è la scomparsa del Commissario Luigi Calabresi dalle vicende innescate dalla strage di Piazza Fontana in favore dell’esaltazione della figura dell’anarchico Pino Pinelli. E non potrebbe essere altrimenti visto che il volume è realizzato con il “bene placet” della vedova Pinelli che funge da “nume tutelare”. Si arriva così al paradosso nel volume che le vittime di Piazza Fontana e Pinelli vanno tutti salvati dall’oblio perché le persone non sono granelli di sabbia, ma il Commissario Calabresi è meno di un granello di sabbia finendo per essere relegato alle note, non meritando cioè nemmeno di essere rappresentato graficamente nel fumetto. Se non siamo alla "damnatio memoriae", poco ci manca. La forza mediatica del fumetto non risiede forse tutta quanta nella capacità di raccontare le storie per immagini? Relegare quindi un comprimario storiografico come il Commissario Calabresi alle note in un volume di “graphic journalism” che si occupa di Piazza Fontana e Pinelli non può quindi essere considerato solo come un atto di disonestà intellettuale e storiografica in barba a qualsiasi rigore giornalistico, ma anche (e soprattutto) come un chiaro esempio di giornalismo partigiano filtrato a favore del “nume tutelare”, in questo caso la vedova Pinelli. Per quanto riguarda le fonti adoperate per rappresentare il fumetto, le note di “Piazza Fontana” sono un florilegio di “la ricostruzione dell’ambientazione del convegno è di fantasia” e “in realtà non esistono certezze circa l’identità dei partecipanti”. Cioè, cioè che viene mostrato al lettore è quindi una realtà "a geometria politica variabile". L’autore indica come fonte delle sue ricostruzioni stragiste anche i libri a tema scritti da Adriano Sofri, ma presentando al lettore il fatto che la magistratura abbia riconosciuto proprio in quest’ultimo il mandante dell’omicidio Calabresi come “una sentenza che presenta molti lati oscuri, e ancora oggi è materia di accese polemiche“. Dietro alle “interviste a testimoni e parenti delle vittime” sbrigativamente indicate da Fasiolo nel suo libro, c’era quindi molto di più, anzi molto di meno.
Tralasciando anche il dubbio (legittimo a questo punto) se il giornalista di La Repubblica, autore del saggio pubblicato da Tunuè, il volume “Piazza Fontana” se lo sia effettivamente letto o abbia usato la sinossi dei copertinari per citare l’opera, spostiamo ancora di più l’attenzione su “Piazza Fontana” che prendiamo a questo punto come esempio di attuazione di uno schema preciso per quanto riguarda il “confezionamento” dei volumi di graphic journalism all’italiana. Mentre il giornalismo a fumetti internazionale tanto esaltato da Fasiolo nella prima parte del suo saggio (Maus, Persepolis, i volumi di Joe Sacco, ecc. ecc.) si incardina sull’autobiografia e la testimonianza diretta degli eventi raccontati dagli autori, il giornalismo italiano a fumetti si basa principalmente sul “de relato refero”. Una differenza non da poco, ma che non riesce a venire fuori per come dovrebbe.
La ricetta per creare questi libri è abbastanza “semplice” e al contempo schematica. Si sceglie l’evento storico e/o l’illustre defunto che hanno avuto un grande impatto sociale e mediatico. Si prende contatto con il parente più prossimo della vittima o dell’illustre scomparso. Il parente coinvolto avrà una doppia valenza: fungerà da fonte pressoché unica e da “nume tutelare” fornendo così la legittimazione (soprattutto sociale) di tutta l’operazione anche a livello mediatico. Ovviamente il volume non può contenere elementi o fatti raccontati in modo tale da cozzare con la “versione ufficiale” del “nume tutelare”. Gli autori del libro a questo punto assurgono anche a “vestali transitive” della Verità storica del nume tutelare e dell’illustre defunto. Questo si amplifica soprattutto quando si tratta di morti per mano mafiosa. Il termine “graphic journalism” servirà infine a nascondere la vera essenza del volume: è una “docufiction”. Altro che giornalismo a fumetti. Sono docufction spacciate per giornalismo a fumetti. La differenza non è da poco. L’ultimo aspetto è quello commerciale: se oltre al “nume tutelare” si conivolge nel progetto editoriale anche un associazione per la promozione sociale nata intorno all’evento o all’illustre defunto dopo il suo trapasso, ecco che il substrato sicuro dei lettori è già pronto alla fruizione dell’opera. Ciliegina sulla torta editoriale è fare uscire il volume nell’anniversario dell’evento e/o della scomparsa dell’illustre defunto. Ovviamente questa ricetta mette anche al sicuro da eventuali critiche al volume e ai suoi contenuti: il polticamente corretto e il banalbuonismo, mischiati ad un po’ di cieca ideologia militante, sono degli scudi impenetrabili e riflettenti per chi vorrebbe invece criticare oggettivamente i volumi e le omissioni o alterazioni storiografiche in essi contenute. Chi critica questi volume è infatti, nel migliore dei casi, un colluso con il lato oscuro. Se poi il volume è dedicato ad una vittima delle mafie, il critico è chiaramente uno che esercitando il suo diritto di critica “crede di fare bene all’antimafia, ma finisce solo per fare gli interessi della mafia”.
Siamo di fronte alle stesse dinamiche innescate dal volume “Gomorra” di Roberto Saviano, anche se replicate su scala inferiore (per fortuna!) ma trasposte in catena di montaggio. Si realizza così un “savianesimo” d’accatto in serie ottenuto in vitro per osmosi. Parafrasando l’ottimo saggio di Alessandro Dal Lago, Eroi di carta (manifestolibri – 2010 edizione aggiornata), il giornalismo a fumetti italiano, nella (stra)grande maggioranza dei casi si risolve nell’essere un mero “eroismo di carta” che ha le sue principali caratteristiche in una militanza politica (praticamente a senso unico) di tipo morale e sacerdotale. Il falò delle verità del giornalismo a fumetti italiano diviene liturgia laica. Gli “ismi” dunque si sprecano e così il giornalismo a fumetti diventa anche ventriloquismo a fumetti. In fondo ad un illustre morto trasposto a fumetti si può fare dire qualunque cosa, non c’è pericolo di smentita da parte dell’interessato.
Il saggio di Fasiolo, pubblicato nel marzo del 2012, come già detto, arriva a trattare e nemmeno completamente il 2010. Per fortuna a rimettere in una equilibrata prospettiva la storia di Calabresi e Pinelli ci penserà 001 Edizioni nell’aprile 2012 con il volume “Pinelli e Calabresi: la storia sbagliata”, scritto da Bepi Vigna e disegnato da Matteo Surroz.
Sin dal titolo il volume di Vigna e Surroz appare chiaro nelle sue intenzioni. Alla fine della lettura si rivelerà finalmente come un volume scevro dalle ipocrisie, non solo politicamente corrette, in cui si è impatanato il cosidetto giornalismo a fumetti italiano. E non potrebbe essere altrimenti visto che la storia è scritta e sceneggiata da un serio professionista del fumetto. Bepi Vigna, cocreatore di Nathan Never, si cimenta nel genere “docufiction” con una prova di sceneggiatura magistrale che ristabilisce anche la scala di valori delle qualità autoriali di parecchi sceneggiatori di graphic journalism all’italiana. I disegni di Surroz, nonostante la tendenza dell’autore al grottesco e alla deformazione, si rivelano essere essenziali e molto funzionali all’opera, donandole quella liricità che merita. Bepi Vigna libero dal dovere rendere conto e ragione di cosa racconta a un “nume tutelare” o alla fede politica, mette in scena la storia di Pinelli e Calabresi alternandone i punti di vista con grande equilibrio.
Lo sceneggiatore subito nelle prime pagine ci mostra quella che è la verità oggettiva e anche processuale: Calabresi non era nella stanza quando Pinelli volò giù dal balcone della Questura di Milano. Ci viene mostrato anche il linciaggio mediatico che Calabresi dovette subire, orchestrato soprattutto da Lotta Continua che aveva in Sofri il maggiore denigratore del Commisssario di PS. Vigna ristabilirà anche tutte le bugie che furono dette sul conto del Commissario da parte di Sofri e LC, come ad esempio che Calabresi lavorasse per la CIA. Sulle pagine di Lotta Continua, Sofri e LC. non si accontentarono solo di mettere in atto, come una “macchina del fango” antelitteram, il linciaggio mediatico di un funzionario di PS accusato ingiustamente di un crimine che non aveva commesso, ma arriveranno ad a chiederne il sangue scrivendo: “di questi nemici del popolo vogliamo la morte!”. Nel volume si racconta anche dell’appello contro Calabresi firmato dall’intellighenzia dell’epoca. Fu quella la vera condanna a morte di Calabresi.
Ma Vigna si occupa anche (e soprattutto) di ristabilire l’ "humanitas" di Pinelli e Calabresi, raccontando la loro dimensione familiare di mariti e genitori. Non ci sono vittime e carnefici in questa storia raccontata da Vigna e Surroz, non ci sono barricate ideologiche, ma due uomini, Pinelli e Calabresi, che si regalano a vicenda dei libri durante la loro conoscenza. Vigna riesce a regalarci un finale lirico e commovente. “In un altro tempo”, nella vita dopo la morte, Calabresi e Pinelli si (r)incontrano. Pinelli: “Noi abbiamo vissuto i nostri tempi e per uno strano destino siamo diventati i simboli di quegli anni confusi e problematici”. Calabresi: “Hai ragione... però, sai... io penso che la nostra storia sia proprio sbagliata”. Pinelli: “Già... anche a me sarebbe piaciuta diversa”.
Ci sono voluti più di quaranta anni, ma alla fine il fumetto senza etichette forzate è riuscito a fare quello che nemmeno il giornalismo a fumetti è riuscito a fare: far fare pace a Pinelli e Calabresi.
Nella terza parte di questo articolo scopriremo che la più grande opera di giornalismo a fumetti italiana, il libro che se la gioca alla pari con Maus e Persepolis (per citarne due “famosi” in ogni dove...), è un volume autobiografico bellamente ignorato dalla critica e dalle giurie.
(2- continua)
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