- Categoria: Osservatorio Tex
- Scritto da Lorenzo Barruscotto
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RECENSIONE, ANALISI E SAGGIO SUL TEXONE NUMERO 33: "I RANGERS DI FINNEGAN"
Hola, amigos! Come ve la passate? Sono trascorsi alcuni giorni dall'ultima volta che ci siamo fatti due chiacchiere insieme qui al Trading Post. Perciò mettetevi comodi e riempite i boccali. Visto il caldo di questi giorni sono sicuro che nessuno di voi si offenderà se vi offro una bevuta generale, tanto per sciacquarci il gargarozzo. Ed in effetti, per lubrificare lingua e memoria non credo che ci fermeremo al primo giro, dal momento che ce ne sono di cose da dire in merito all'albo speciale di cui parliamo oggi. Sono talmente tante, sia dal punto di vista storico sia prettamente legato al volume, che non so bene neanch'io da dove sia meglio iniziare… Fermi! Rimettete le gambe sotto i tavoli e non fate quelle facce da funerale. Non c'è bisogno di balzare subito in sella per filarsela a spron battuto immaginando già quanto il discorso possa diventare soporifero. Innanzitutto di alcuni argomenti abbiamo già discusso in passate occasioni quindi non servirà ripeterli, perciò mi limiterò, nel caso qualcuno voglia fare un veloce ripasso, a citare le recensioni in cui li avevo inseriti aggiungendo il link al quale si riferiscono, con solo due (prometto che saranno solamente due, magari tre… non più di quattro) righe per una rapida introduzione.
Effettivamente però, questo sarà il più lungo (e spero non il più noioso) articolo che sia comparso nella Rubrica finora. Non preoccupatevi il “finora” non era una minaccia. Se avrete la pazienza di arrivare alla fine sono certo che converrete con me riguardo la mole di informazioni, notizie e "facts" per usare un termine moderno che questo trentatreesimo Texone racchiude in sé e qualora foste curiosi di scoprire perché diavolo sia stato più logorroico del solito, potreste fare con queste mie parole proprio come molto probabilmente fate con il volume, cioè leggerlo a più riprese.
Avrò modo di spiegarvi le ragioni della mia “lungaggine”.
Per contro, volendo essere telegrafici, ermetici all'estremo, potremmo riassumere l'intero albo con tre sole parole, che però da sole bastano ad evocare libri di storia, film, romanzi ed immagini che hanno attraversato la mente e popolato la fantasia di tutti noi appassionati di West: Rangers, Texas, Comanches. D'altra parte già dal titolo si capisce che uno dei fulcri su cui si svilupperà l'intera vicenda è proprio il Corpo dei Rangers, quindi per certi versi potremmo dire quasi di “giocare in casa” visto che Tex, Carson e Kit portano la stella d'argento per quanto non siano, come dire, membri in servizio attivo sottoposti ad autorità e superiori diretti, qualora non si tratti proprio del Comando dei Rangers di stanza ad Austin, Texas.
Avevamo già appurato diverso tempo fa di quanto duro fosse il compito di un Ranger e se siete interessati a rispolverare l'argomento mentre vi bagnate il becco per contrastare la calura e l'afa di questi giorni, eccovi il link della recensione che conteneva alcune note storiche sul quel Corpo Speciale di combattenti: http://www.fumettodautore.com/index.php/magazine/osservatorio-tex/5371-classic-tex-numero-11-satania .
I lettori ormai non più di primo pelo, me compreso, sono stati abituati per lungo tempo ad identificare in un elegante e non sempre simpaticissimo signore dai capelli e dai baffi bianchi la figura del capo del "Servizio Segreto dei Rangers", vale a dire il famoso Herbert Marshall, che compare come comandante dei giovani Tex Willer e soprattutto Kit Carson, quando non erano ancora Aquila della Notte e Capelli d'Argento. Dico “soprattutto Carson” perché più di una volta anche se arruolato dalla parte giusta della barricata, il nostro ex magnifico fuorilegge in ogni caso dimostrava, il più delle volte a ragion veduta, una certa insofferenza nei confronti della disciplina, talora imposta da ufficiali incapaci di gestire situazioni che richiedevano azioni rapide e risolute se non proprio del tutto privi di buon senso ed il futuro maggiore Carson si era frequentemente trovato a dover ammansire le ire di un furibondo Marshall, pur parteggiando sempre per il suo pard.
Comunque, tornando “al presente”, in questo caso la situazione è completamente diversa ed il problema estremamente grave. Si tratta di qualcosa di ripugnante ed al contempo terribile non soltanto da affrontare ma proprio da accettare mentalmente tra sé e sé, qualcosa che se si rivelasse vero getterebbe un'ombra maledettamente cupa su ciò che invece è e deve restare simbolo di onore, coraggio e lealtà: la parola in questione è “sospetto”.
Un oscuro timore accompagnato da oppressive sensazioni negative, impossibile da ignorare, un tremendo dubbio che sarebbe inammissibile non verificare. Il fatto è che se da un lato ogni fibra del nostro essere si rifiuta di pensare che quel timore possa essere fondato, dall'altro si manifesta lentamente un tenebroso presentimento che fa sentire la sua voce, sottile ma insistente, una voce sviluppata in anni di indagini, in decenni di pericoli scampati lungo la Frontiera al fianco dei Nostri. Non ha importanza che si tratti anche solamente di un sussurro: è proprio questa “vocina interiore” uno dei motivi che ci spinge, quasi dimenticandoci completamente di ciò che ci succede attorno, a proseguire nella lettura, la quale ci cattura ipnotica nel suo vortice trasportandoci in un mondo di uomini duri, dove la giustizia è affidata ad un'altra voce, possente, autoritaria, risolutiva ed inappellabile: quella della Colt.
Dobbiamo questo turbinio di emozioni, e credetemi, siamo solo all'inizio, ad una coppia di assi dalla cui collaborazione non poteva che uscire un albo davvero “speciale”, in un'altra accezione rispetto a quella che indica la scritta sulla copertina: si tratta dei veterani Boselli ai testi e Mario Rossi, detto Majo, ai disegni. Ben noto per il suo inappuntabile lavoro sulle pagine di Dampyr, l'artista, rispetto ad altre "guest star" che lo hanno preceduto ai quali in un paio di occasioni (più uniche che rare, ci tengo a sottolinearlo) la sella risultava, bisogna ammettere, piuttosto dura e scomoda, sembra anch'egli nato ad un tiro di schioppo dalle rive del Nueces ed appare maledettamente a suo agio in ogni tavola, sia quando si tratta di riprodurre le assolate e desertiche pianure della riserva Navajo sia che ci offra da bere in un saloon di una cittadina “civilizzata” dove non ci si stupisce troppo se tra una bistecca alta tre dita ed una tazza di caffè nero e bollente qualcuno cerca di appianare le proprie divergenze facendo saltare un paio di denti all'interlocutore, ma spaziando anche da isolati ranch nel sud del Texas a fatiscenti villaggi a sud del Rio Grande.
Nonostante solitamente sia più avvezzo a vampiri ed esseri infernali, Majo ci regala una storia dal sapore cinematografico puramente western o se preferite un film in formato cartaceo che rapisce dalla prima all'ultima pagina. E bisogna dire che i “suoi” cattivi anche se non si tratta letteralmente di succhia-sangue, in quanto a crudeltà e ghigni malefici non hanno nulla da invidiare alle creature della notte. La sola differenza è che i colleghi di Dracula si eliminano con un paletto di frassino nel cuore, mentre “dalle nostre parti” è sufficiente un piccolo cilindretto di piombo nella carcassa o ancora meglio tra gli occhi. L'effetto è garantito, anche se le pallottole non sono state immerse nel sangue di Dampyr, come invece è necessario fare al fine di rendere efficaci le armi da fuoco nel mondo moderno e gotico nel quale Harlan Draka (il Dampyr per l'appunto, nato dall'unione di un potente vampiro con un'umana), la vampira votata al bene Tesla ed il rude soldato Emil Kurjak si muovono per difendere l'umanità dai Maestri della Notte e dalle loro orde di non-morti.
Ritratto di Majo ad opera di Lorenzo Barruscotto
Segnali di fumo si possono vedere all'orizzonte. E noi già ci immaginiamo il vecchio Carson alzare gli occhi al cielo chiedendosi quali altri guai gli stiano per piovere sulla zucca. Purtroppo stavolta la realtà va ben oltre anche le più pessimistiche previsioni del buon Capelli d'Argento. Sapete meglio di me che quando neanche il Vecchio Cammello si permette di stemperare la tensione con una delle sue bonariamente fosche battute la situazione è grave.
Un'ambasciata portata al grande capo Aquila della Notte annuncia una tragedia: un intero villaggio è stato massacrato, completamente annientato dalla furia di un odio senza pari. Nessuno è stato risparmiato. Ora quei caduti, quei pacifici pellerossa uccisi senza ragione esigono giustizia.
E quale uomo se non il sakem dalla pelle bianca ma dal cuore indiano potrebbe raccogliere un appello che altrimenti resterebbe facilmente inascoltato?
Ma chi sono i latori di questa triste notizia di sventura? Chi sono i pittoreschi guerrieri, fratelli di coloro che sono stati colpiti così barbaramente e che adesso chiedono aiuto ad altri fratelli? Appartengono ad un popolo fiero e valoroso quanto i Navajos, i Sioux o gli Apaches tanto per fare solamente alcuni esempi illustri e ben noto a tutti noi: sono Comanches.
Avremo modo più avanti di parlare in modo maggiormente approfondito di questa nazione indiana, quanto meno negli aspetti che interessano noi nello specifico e soprattutto riguardo i personaggi storici realmente esistiti che vengono nominati nelle pagine di questo Texone, ma ora urge una premessa per evitare che vogliate tirarmi il collo appendendomi all'albero più vicino.
Tutto quello che ho scritto sino ad ora, il villaggio distrutto ed il fatto che compaiano i Comanches, non è uno spoiler dal momento che queste notizie, insieme ad altre dosate ad arte, sono state rese note già molto tempo prima dell'uscita nelle edicole del volume ed inoltre, ormai lo sapete bene, non è mia abitudine spiattellare a tradimento cosa accade negli albi.
Lo ripeto in poche parole poiché anche su questo concetto ho già consumato parecchio fiato in passato: i miei articoli, le nostre chiacchierate, sono recensioni, con uno stile personale fin che volete, infatti non assegno né assegnerò mai voti alle storie per esempio, ma non sono mai, ed anche questo lo sottolineo con una punta di orgoglio, meri riassunti. E credetemi in certi casi, come questo, non è affatto facile non cadere nella trappola di svelarvi qualcosa di troppo, errore che però mi farebbe finire riempito di pece e piume, come, ad essere sinceri fino in fondo, viene spesso voglia di fare quando qualcuno ci racconta candidamente, anche senza pensarci e non volendo proprio causarci un torto, il finale di un racconto.
Cercherò di fare in modo che chi ha già letto il volume annuisca quando trova riscontri oppure senta la voglia di andare a controllare se ciò che ho detto è una panzana o se corrisponde al vero e che coloro i quali non lo hanno ancora comprato o magari non ne hanno ancora completato la lettura si vedano aumentare la quantità di acquolina in bocca, senza però che nessun colpo di scena venga rovinato.
Eh sì, perché Boselli inserisce parecchi nodi cruciali nella narrazione, e non saranno solamente un paio le volte in cui ci sorprenderemo ad esclamare “per tutti i diavoli!” alternando espressioni di viva sorpresa a genuini epiteti tutt'altro che delicati rivolti verso quel tale farabutto o anche “solo” verso un balordo che non è il cattivo principale ma che ci risulta particolarmente odioso come spesso accade quando un personaggio minore riesce ad attirare un certo astio pur senza effettivamente valere neanche il costo del proiettile che si meriterebbe tra le costole. Un esempio su tutti per spiegarmi meglio anche se non è legato direttamente al nostro racconto: Ike Clanton nel, secondo me, bellissimo film “Tombstone”, del 1993, che racconta le vicende del celeberrimo Wyatt Earp e fratelli, con Kurt Russel nei panni dello sceriffo dai baffoni ed un immenso Val Kilmer nel ruolo di Doc Holliday.
Ecco, di vermiciattoli del genere non è difficile imbattersi in tutte le epoche, al giorno d'oggi si chiamano bulli, ai tempi della Frontiera si chiamavano “potenziale cibo per avvoltoi”. Ed anche in questa storia, sempre secondo il mio parere, almeno un tizio potrebbe trovare un caldo posto all'inferno proprio accanto al succitato Clanton, per quanto almeno in apparenza, il personaggio dell'albo risulti meno vigliacco. Badate, ho detto in apparenza: è facile fare la voce grossa con i più deboli, specialmente se spalleggiati da altre iene della stessa risma, ma se ci si imbatte in un osso troppo duro da rodere non ci si può poi lamentare se si deve tirare avanti a brodini per aver sputato la dentiera nella sabbia del deserto.
Siamo abituati agli alti livelli che le storie firmate dal “boss” sceneggiatore e curatore di Tex raggiungono ed infatti anche questa volta non restiamo delusi: i dialoghi di Boselli, parallelamente alle maestose chine del suo complice/pard Majo, riescono a definire con poche frasi l'ambiente in cui ci troviamo: sono più “formali” ed elaborati quando sediamo insieme ai Pards in uno hogan nel villaggio centrale della Riserva ascoltando in rispettoso silenzio le parole dei Comanches o di Aquila della Notte mentre cambiano decisamente registro diventando ricchi di termini gergali tipici del West di cui, diciamocelo, non ci stanchiamo mai, colloquiali ma dal retrogusto metallico, parole provocanti fino a diventare incandescenti come la canna di un Winchester che ha appena sparato l'ultima cartuccia, quando siamo appoggiati al banco di un locale pieno di cowboys affamati e soprattutto assetati, fino a diventare affilati come la lama di un coltello Bowie quando diventano frasi di sfida tra avversari che si affrontano in scontri mortali nella prateria, i testimoni dei quali sono solamente gli avvoltoi che pregustano già un ricco pranzetto, indipendentemente da chi risulterà vincitore.
Doc Holliday e Wyatt Earp percorrono la main street di Tombstone, disegno di Lorenzo Barruscotto
Tornando ai Comanches, non è certo la prima volta che veniamo in contatto con gli appartenenti a questo popolo e, senza enfatizzarlo troppo, anche gli autori del Texone ci offrono lo spunto per riportare a galla nella nostra memoria una delle avventure più coinvolgenti della storia recente di Tex, seppur senza la presenza degli altri pards al suo fianco, dal momento che si tratta di un episodio accaduto quando Kit era ancora un bambino che risiedeva presso il villaggio Navajo e che quindi risale a molti anni prima di quando è ambientata la vicenda narrata in questo speciale. Basta un cenno di intesa tra Tex e Carson ed al lettore ritornano alla mente le indiavolate sparatorie, le galoppate a briglia sciolta e la resistenza ad oltranza organizzata presso le rovine di Fort Quitman da Tex ed un pugno di valorosi tra cui alcuni detenuti, il tutto condito con frecce incendiarie e dinamite, che abbiamo vissuto ai tempi della “Grande invasione”, quando i Comanches guidati dai capi di guerra Quanah Parker, Tonkawa e Buffalo Chief si riversarono nel Texas meridionale per scacciare gli uomini bianchi da quei territori, aggredendo non solo ranch isolati ma addirittura vere e proprie città (evento che ricalca fatti reali, come avremo modo di verificare). Anche in quel caso la sceneggiatura era opera di Boselli, mentre i disegni erano stati affidati al maestro Marcello, per l'occasione particolarmente ispirato. Una storia che fa venire la pelle d'oca solamente a ricordarla, per la profondità dei temi trattati: onore, rispetto anche del nemico, coraggio, redenzione e soprattutto uno a me caro, vale a dire l'amicizia.
Muy bien, direi che è tempo di iniziare ad approfondire alcuni aspetti della faccenda “attuale”. Innanzitutto mi sono soffermato su quella “vecchia” storia in particolare non solamente perché viene sottilmente rievocata nel giro di un paio di vignette, occhio quindi a non perdervi il riferimento, ma soprattutto perché si parla direttamente di uno dei tre leader che ho citato poche righe fa, cioè Quanah Parker, per bocca di suo fratello, Pecos, altro figlio del capo Peta Nocona.
Ora, non sono stato così specifico al fine di ricostruire chissà quale albero genealogico riguardo “famose” famiglie Comanche ma unicamente poiché si tratta di personaggi storici anzi di persone vere, che hanno realmente cavalcato nelle praterie texane e che hanno contribuito a creare la Storia di quello Stato, nel bene e nel male, insieme ai loro, come chiamarli, “coinquilini” bianchi.
E poi ormai è appurato che non so resistere quando la realtà incrocia la pista della fantasia.
Iniziamo con il dire che l'odierna Nazione Comanche, estremamente ridotta nel numero dei suoi membri, risiede ai nostri giorni sparsa tra Oklahoma, Texas, California e New Mexico. Un dettaglio che ha colpito la mia curiosità è che pare che non tutti gli storici siano concordi neanche sull'origine del nome stesso della tribù: una delle ipotesi consiste nel sostenere che la parola “Comache” sembri essere una sorta di trasposizione in lingua spagnola di un termine nativo, probabilmente “Kohmahts” il quale sostanzialmente verrebbe tradotto con “nemico” o “combattente” oppure “straniero”. Anche al nome “Apache”, come abbiamo scoperto recentemente, veniva attribuito un significato simile.
A occhio direi quindi che si trattava in entrambi i casi di gente che non era il caso di far arrabbiare.
Provenienti da oltre le Montagne Rocciose, non si tratta di un popolo originario delle grandi pianure, la cosiddetta Comancheria divenuta "casa loro", dove però si stabilirono in tempi molto più antichi del “nostro” vecchio West, e già dal 1700 si hanno prove e notizie di incursioni di bande di guerrieri ai danni di insediamenti isolati con uno scopo su tutti gli altri: procurarsi dei cavalli, sostanzialmente ancora sconosciuti ad altre tribù. Questi pellerossa erano infatti noti per le loro grandissime doti di allevatori di mustang e cavallerizzi oltre che per essere indomiti guerrieri, anche tra gli indiani dei territori confinanti.
Si possono distinguere cinque rami principali nella grande Nazione Comanche: i Quahadi, cioè le Antilopi nelle fila dei quali si riunirono anche diversi appartenenti ad altri ceppi quando divennero “uniti ed irriducibili”, i Nokoni (ramo d'origine del padre di Quanah anche visto il nome, Peta Nocona), i Kotsoteka, anch'essi citati in precedenza, famosi cacciatori di bisonti con lance e frecce, come anche molti altri membri di questo fiero popolo rosso, i Penateka e gli Yamparika.
I Comanches al pari di diverse tribù, tra cui ad esempio i “nostri” Navajos, si riferivano a loro stessi chiamandosi “il popolo degli uomini” ed il loro idioma sembrerebbe addirittura risalire nei secoli alla lingua azteca ma molte delle fonti che ho consultato lo ritengono una branca del dialetto Shoshone. Perciò dovrebbe esserci un certo grado di parentela tra queste due nazioni, risalente ad almeno tre o quattro secoli fa.
E' però facile pensare che i più famosi condottieri avessero imparato a comprendere la lingua dell'uomo bianco o per lo meno alcuni termini in lingua inglese. Ad esempio è un fatto storico che non furono pochi i “prigionieri di guerra” rapiti dai guerrieri Comanche nelle loro incursioni e razzie; non sono soltanto argomenti per romanzi e pellicole hollywoodiane. E proprio dai prigionieri sarebbero potute provenire alcune "lezioni linguistiche".
Uno di questi casi, noto ai più attenti appassionati di western è quello di una certa Cynthia Ann Parker, rapita nel 1836 durante una razzia in Texas, dalle parti di un villaggio fortificato, evidentemente non troppo bene, di nome Fort Parker. Non fu la sola ma a noi interessa lei perché, adottata dalla tribù, venne addirittura data in sposa ad un capo dei Quahadi Comanches da cui ebbe dei figli. Ed indovinate come si chiamava uno dei tre? Bravi, uno era proprio Quanah. Per completezza di informazioni, aggiungo che la “signora Parker” venne in seguito liberata dai texani ma ormai troppo avvezza alla vita dei Comanches, decise volontariamente di far ritorno presso la sua famiglia adottiva. Quello stesso Peta Nocona, o solo Nocona se preferite, che ho nominato precedentemente e che era divenuto suo marito venne ucciso in uno dei tanti scontri tra indiani e bianchi, durante il quale Cynthia fu nuovamente riportata tra la “gente civile” ad Austin dove morì senza riuscire a rivedere i figli rimasti nel loro villaggio natale, tra gli indiani. Quindi l'allora piccolo Quanah rimase orfano di entrambi i genitori e certamente non sviluppò una naturale simpatia verso quelli che non proprio a torto considerava gli invasori della sua terra. Poco importa che si trattasse di messicani o texani, sempre invasori erano.
Il valore di Quanah comunque gli permise di superare le mille difficoltà a cui andò incontro e lo fece diventare il capo della sua gente, i Quahadi Comanches, il cui territorio si estendeva fino ai monti Wichita, in Oklahoma. Inutile dire che la sua tribù era una delle più bellicose ed accanite nella guerra contro i "pindah lickoy", cioè gli uomini bianchi. In ogni caso il capo pellerossa non era un insensato pazzo assetato di sangue. Beh, desideroso di vendetta e quindi non proprio incline a comportarsi come un chierichetto se si trovava un nemico tra le mani lo era stato in gioventù, visti anche i torti subiti dalla sua gente, ma non si può certo affermare che si comportasse a guisa di un fanatico senza cervello e dopo aver dovuto deporre le armi non smise di essere una saggia guida per il suo popolo, promuovendo una certa convivenza al fine di proteggere gli interessi del popolo Comanche, imparando così bene l'arte della diplomazia e la mentalità dei "vincitori" tanto che potremmo quasi affermare che divenne un proprietario terriero ed un latifondista, sfiorando l'idea di diventare un rappresentante indiano, una sorta di ambasciatore, presso il “Grande Padre Bianco” di Washington. Non guardatemi così, non mi sono scolato del torcibudella andato a male. Secondo le informazioni che ho incrociato intrattenne amichevoli rapporti perfino con il presidente Roosevelt, Theodore (26esimo) non Franklin Delano (32esimo), conosciuto in uno dei suoi numerosi viaggi all'Est. Ed il presidente ricambiò le visite, andando anche a caccia insieme al suo “quasi collega” dalla pelle rossa. Appare quindi quanto meno buffo che ci siano diverse cose che ignoriamo sul capo Quanah Parker, prima fra tutte la data di nascita e quindi l'età corretta. Sappiamo solo che morì nel 1911. Ci sarebbe da ridire a seconda dei due fronti, bianchi o indiani, anche sulla veridicità del suo nome. Sembra che suo padre lo chiamasse Aquila e che l'aggiunta del cognome della madre, Parker, non venne ovviamente utilizzata tra i suoi guerrieri.
Se vi state chiedendo quindi se il Pecos che va a parlare con Tex sia anch'egli figlio di Cynthia Parker la risposta è no, anche perchè i Comanches erano poligami.
Ci sono dei dubbi anche su chi abbia ucciso suo padre, Peta Nocona. Per diverso tempo “the kill”, cioè "il colpo" fu attribuito al governatore del Texas dell'epoca, un certo Ross, ma pare che si trattasse solo di vanteria da ubriaco. Anche perché sembra proprio che quando la signora Parker, madre di Quanah venne “liberata”, il marito neanche fosse presente al villaggio. Insomma, un altro caso in cui leggenda e realtà si pestano i piedi tra loro. Per tornare a parlare di ciò che veramente ci interessa, quel che è certo è che il padre di Quanah prima del figlio fu un importante capo Comanche. Ma chi erano i Quahadi? Il loro nome come ho detto significa “Antilopi” e sono entrati nel mito come favolosi cavalieri capaci di compiere vere e proprie acrobazie sempre ovviamente montando gli animali a pelo, proteggendosi spesso con degli scudi di pelli o cuoio e riuscendo perfino a scagliare frecce da sotto il collo del cavallo lanciato al galoppo: furono senza dubbio temibilissimi guerrieri. In sostanza, secondo fonti storiche moderne, si trattava di quella parte di Comanche più irriducibili ai quali si unirono (o che già comprendevano) quei Kotsoteka, altrettanto agguerriti contro i bianchi, che ovviamente non volevano neanche sentire parlare di Riserve.
Oltre ai Rangers, i Comanches avevano altri nemici giurati: i cacciatori di bisonti colpevoli dell'indiscriminata distruzione di un'intera specie, ridotta senza paura di esagerare troppo nell'enfasi del termine, quasi all'estinzione. Bisogna anche dire che l'uccisione dei bisonti, da sempre mezzo di sostentamento principale dei guerrieri rossi, dalle pelli alla carne fino al grasso con cui si spalmavano il corpo per difendersi dal freddo e dalla polvere o per riti ed usanze tradizionali, rappresentò anche un modo per indebolire il nemico.
Una delle principali usanze della tradizione Comanche era l'uccisione del mustang che apparteneva ad un guerriero caduto in battaglia affinché il suo spirito potesse cavalcare nelle verdi praterie del Cielo.
Spesso effettuavano le loro razzie notturne quando c'era la luna piena, che consentiva una certo grado di visibilità. E' proprio da ciò che deriva il termine “Luna Comanche” attribuito alle notti di luna piena per l'appunto, resa lugubre e spettacolare allo stesso tempo pare dai riflessi rossastri causati dalla luce solare sulla terra del deserto, una “luna di sangue” e quando appariva nella volta celeste alcuni popoli pellerossa credevano si potessero realizzare anche brutti incontri con cattivi spiriti. In realtà i brutti incontri li facevano i poveracci che si vedevano soffiare intere mandrie di cavalli e che se avevano salvato la pelle, si ritrovavano con i ranch incendiati ed anche amici o parenti rapiti.
Essendo di natura nomade per via del fatto che seguivano gli spostamenti delle mandrie di bisonti a seconda delle stagioni, non vivevano in hogan come i Navajo ma nei teepee, le famose ed iconiche tende, che venivano rafforzate con fango e proprio pelli di bisonti per proteggerle dai forti venti che spesso spazzavano le praterie dove vivevano.
Tali pianure venivano chiamate Bad Lands, cioè terre cattive, il che non ci aiuta a considerarle un posto particolarmente ospitale. Tanto per complicarci la vita possiamo anche chiamare il cuore del territorio dei Quahadi “Llano Estacado”, letteralmente "pianura recintata" per via della presenza anche di mesas ed alture, una zona sul confine tra Texas e New Mexico, nella quale si erano stabiliti dopo aver spinto gli Apaches, i precedenti abitanti, in territori più meridionali. La regione divenne parte integrante della Comancheria, una vera e propria roccaforte che fornì anche un rifugio alle ultime bande di Kiowas e Comanches che si rifiutavano di arrendersi.
Disegno di Lorenzo Barruscotto
Non fu certamente un'impresa facile “convincere” questi valorosi, feroci e soprattutto liberi figli di Manito a trasformarsi in pacifici indiani delle Riserve.
Un famoso trattato stipulato tra Texas e Comanches o per meglio dire gli indiani delle grandi pianure, fu quello di Medicine Lodge del 1867. In realtà tale accordo prevedeva armistizi anche con altre tribù, cioè Apaches, Arapahos, Cheyennes e Kiowas, al fine di concordare le modalità di assegnazione proprio delle Riserve. Ma a causa del fatto che i territori previsti da accordi precedenti subirono “strane”ed imponenti riduzioni senza contare il rimangiarsi, sai che novità, da parte dei bianchi le promesse sul mettere un limite all'incontrollata attività dei cacciatori di bisonti, tali accordi non vennero ratificati e certamente non furono accettati da tutti i rappresentanti del popolo rosso. Perfino Sam Huston, quello vero, non quello di film o fumetti, ebbe a che fare con i guerrieri Comanches cercando di mettere un freno ai continui e violenti scontri in un clima di guerra praticamente continua. La loro parte, purtroppo ma inevitabilmente, la fecero anche le malattie (non sempre provocate volontariamente come accade per la tristemente nota epidemia di vaiolo che uccise la moglie di Tex) portate dai bianchi, tra cui proprio vaiolo ma anche colera, non insolite a quei tempi.
Dopo numerosi scontri (come, tanto per citarne un paio, le due battaglie di “Adobe Walls”: nella prima le truppe erano guidate da un certo Christopher “Kit” Carson - vi dice niente questo nome? - mentre alla seconda prese parte anche proprio Quanah) ed esempi di brutalità motivata da entrambe le parti dal più radicato odio nei confronti degli avversari, le ultime tribù ribelli vennero sconfitte presso il Palo Duro Canyon. Così nel 1876 iniziò la loro vita nella Riserva di Fort Sill. Si concludeva la cosiddetta “Guerra del Red River” segnando in pratica la fine dei conflitti contro gli indiani nelle grandi pianure.
Il valore dei Comanches non poteva avere la meglio sugli Sharps dei cacciatori bianchi.
Abbiamo detto che anche i Kiowas vennero coinvolti negli ultimi scontri ed noi abbiamo “vissuto in prima persona” in una recente storia di Tex la lotta tra i Rangers del Frontier Battalion contro i guerrieri guidati da Lone Wolf nella battaglia di Lost Valley (realmente accaduta).
Ci furono episodi di guerriglia e ribellioni con fughe dai confini della Riserva negli anni successivi, ma vennero tutti repressi nel sangue.
Il colonnello Ranald (sì, con la A) MacKenzie, uomo di fiducia dei generali Sheridan e Sherman, esatto proprio il “colonnello mano cattiva”, chiamato così dagli indiani in seguito ad una ferita di guerra, lo stesso che abbiamo incontrato durante l'avventura citata poche righe fa inerente i “Rangers di Lost Valley” insieme a Tex e Carson, anch'egli personaggio realmente esistito, incrociò anche se non direttamente la sua pista con quella di Quanah che venne considerato dai bianchi il leader dei Comanches, anche perché era universalmente riconosciuto come guerriero carismatico ed intelligente.
Visto come andarono le cose nella realtà storica non appare assolutamente difficile comprendere, non intendo dire condividere, l'incolmabile baratro di livore ed avversione che, dall'altra parte del fosso, anche ogni texano provasse nei confronti dei “selvaggi che occupavano le loro terre”. Punto di vista del tutto opinabile, ma che giustificò la repressione pesante in molte azioni militari od operate dai cosiddetti “volontari”. Anche i Rangers, già normalmente non noti per le loro maniere posate, si trovarono spesso in prima fila nella lotta contro i pellerossa, anche perché uno dei principali motivi per cui era stato creato il Corpo, era proprio quello: difendere i coloni dalle incursioni indiane. Insomma, Rangers e Comanches erano come cane e gatto, con Winchester e lance al posto di unghie e denti. E non si limitavano a graffiarsi o a ringhiare: cercavano proprio di farsi a pezzi l'un l'altro. Come sempre accade in situazioni anche meno complesse di quella che ho tentato di descrivervi facendo un quadro dell'aria che tirava in quel tempo in Texas, purtroppo ci andarono di mezzo innocenti da entrambe le parti, e quando accadeva un fatto del genere, aveva come conseguenza il rendere sempre più lontana una vera e propria idea di pace e convivenza. Inoltre chiunque provasse a fare un passo in quella direzione veniva tacciato di tradimento e rischiava di fare una pessima fine, un po' come soffiare su un grosso falò dalle alte lingue di fuoco nel tentativo di spegnerlo. Risultato: l'incendio della guerra veniva costantemente rintuzzato.
Per tornare alla nostra storia, la situazione nei quali si trovano i Pards è pertanto davvero delicata, e per venire a capo di questa intricatissima matassa, come spesso accade, i quattro compagni si dividono su più fronti. A dire la verità la parola “dividersi”, a giudicare da ciò che abbiamo visto nelle anticipazioni forniteci anche dalla stessa Casa Editrice, sembra acquisite un significato completamente diverso ed infatti siamo testimoni di qualcosa che ha dell'incredibile, una scena alla quale non ci saremmo mai nemmeno immaginati di assistere. Sapete bene a cosa alludo poiché quella famosa tavola ha sconvolto generazioni di lettori: un acceso diverbio tra i due Kit, Carson ed il suo figlioccio, che addirittura vengono alle mani, con lo sguardo del giovane Willer carico di risentimento nei confronti dello “zio” tanto da sembrare un'altra persona. Come se non bastasse Piccolo Falco afferma o per meglio dire grida in faccia al vecchio ranger di non avere più nessuna intenzione di tornare tra i Navajos e che intende andare per la propria strada.
Io non posso e soprattutto non voglio privarvi del piacere di scoprire che cosa stia succedendo e cosa passi nella testa di Kit Willer ma questo invece lo posso fare: vi invito a riflettere ed a pensare a chi sia il figlio di Tex, non in quanto proprio figlio di una leggenda vivente e che quindi a volte percepisca tale peso sulle spalle, ma intendo dire a che tipo di uomo sia ora e come lo sia diventato, vi invito a ritornare con la memoria ai numerosissimi episodi attraverso i quali abbiamo imparato a conoscerlo in tutti questi anni, vedendolo letteralmente nascere e crescere, rispettato quanto suo padre tra le genti Navajo e giustamente temuto dai fuorilegge essendo un vero tizzone d'inferno come il suo famoso genitore.
Viene brevissimamente rievocata un'altra immortale scena di tantissimi anni fa, che non sto a raccontarvi ma che ognuno di voi vedrà nuovamente comparire davanti agli occhi della mente grazie solamente ad una frase: “Ugh, Piccolo Falco non sbaglia!”.
Quante volte abbiamo riso leggendo i divertenti e divertiti scambi di battute tra Carson ed il suo “quasi figlio”, solo apparentemente irriverente nei confronti di quel secondo padre per cui, per mutuare le parole che proprio Tex pronuncia una volta “ha una vera e propria venerazione”, e quante volte abbiamo assistito a manifestazioni di orgoglio, celate sotto forma di scorbutico commento, da parte del vecchio Kit nei confronti di quel “giovane scavezzacollo”.
Ritengo che come dice il proverbio, “chi ha orecchie per intendere” abbia inteso perfettamente cosa voglio dire. Anche perché non credo di essermi immaginato che una probabilmente non voluta indiscrezione proprio inerente questo sconvolgente episodio era sfuggita, credo l'anno scorso. Quindi dal canto mio, non avendo alcuna relazione di parentela con Nuvola Rossa né essendo in rapporti diretti con il Grande Spirito, i colpi di scena sono stati altri. Anzi, mi spingo ad affermare che il colpo e non di scena sarebbe venuto ad ogni texiano se le cose non fossero andate in un certo modo, un modo che, non negatelo, offre una notevole soddisfazione quando ci accorgiamo che corrisponde all'idea che ci eravamo fatti e che speravamo ardentemente si realizzasse nel racconto.
Kit quindi è da solo, separato dai suoi pards, e sembra voler entrare a far parte di un gruppo speciale di suoi colleghi, i Rangers che danno il nome all'albo. Un innegabilmente affiatato ed apparentemente invincibile plotone di rudi uomini di legge in prima fila nella lotta ai criminali e, guarda alle volte il caso, proprio ai Comanches.
Anche se un genuino “coup de theatre”, agli occhi di un texiano vecchio stile come il sottoscritto, è vedere il nipote di Freccia Rossa in dolce compagnia a parte qualche eccezione di tutt'altra importanza, quali l'indimenticata Fiore di Luna (che purtroppo trova la morte in "Sfida infernale") e la dolce Donna Parker, figlia di Lena ("Ultimo scontro a Bannock" e "Helltown", giusto per i più smemorati), per quanto poi ripensandoci in un secondo momento ci si possa fare un'idea più precisa, situazione anch'essa rivelata da un gustoso trailer comparso poco prima della pubblicazione sui social nonché sulla pagina ufficiale della nostra Fabbrica di sogni, non dobbiamo cadere nella trappola di considerare il solo giovane Willer come protagonista di quest'avventura.
Non si tratta di una storia “in solitaria” ma la coppia Boselli-Majo dosa perfettamente i momenti in cui ci siamo solo noi, per quanto impotenti ed invisibili spettatori, a fianco di Piccolo Falco ed altre scene in cui seguiamo le mosse di Tex e Tiger, che come ho accennato prima, si interessano ad un'altra pista, in apparenza del tutto slegata da quella che sta percorrendo Kit sul suo “nuovo sentiero”. Una pista che sembra avere qualche dettaglio non del tutto plausibile e che non convince il Ranger ma che non è comunque possibile trascurare.
Kit Willer, "ancora giovane d'anni ma già vecchio di esperienza" in un disegno di Lorenzo Barruscotto,
tributo a GALEP
Ad un certo punto della lettura dovremo fare attenzione per più di un motivo: innanzitutto dovremo seguire i ragionamenti e le ipotesi discusse da Tex con il suo fratello di sangue Navajo al fine di non perderci, quando saremo giunti al momento di svolta della narrazione, al climax per usare un parolone che mi fa sembrare intelligente, nessun tassello del puzzle che scena dopo scena, tavola dopo tavola arriva a comporsi con la complicità dello stesso lettore, il quale è talmente coinvolto nel racconto e nelle ambientazioni non solo da tornare sui suoi passi per verificare o controllare un particolare ma che istintivamente viene trascinato, letteralmente risucchiato dalle pagine, nelle pagine, fino a provare ad indovinare i passi successivi sia del buoni che dei cattivi, cambi di location compresi, in una sottile partita a scacchi formata da filoni narrativi solo apparentemente paralleli ma in realtà legati a filo doppio. E non vi dico la - piccola - "botta di autostima" che si prova scoprendo che, diavolo, su “quello” o su “questo” a seconda, ci abbiamo azzeccato!
In ogni caso per quanto ci possiamo sforzare, non riusciremo a prevedere tutte le svolte a cui andremo incontro durante la lettura: d'altra parte sarebbe come pretendere di essere dei campioni di arti marziali solamente perché si conoscono a memoria tutti i film di Bruce Lee. Ed è giusto così: noi siamo i sognatori, non i gestori della Fabbrica di quei sogni che accompagnano generazioni di texiani (con la i) da 70 anni.
Non appena riprendiamo in mano uno dei bandoli della matassa ecco che uno stacco ci trasporta a centinaia di miglia di distanza o magari ci fa balzare da un cocente pomeriggio in una desolata pianura dove l'acqua è più utile versarcela sul cranio bollito dal sole piuttosto che berla, ad una cupa notte senza luna, il che ci obbliga non solo a percepire e superare l'impressione di dover lasciare abituare i nostri occhi all'oscurità ma anche a stare con le orecchie ben tese come se anche noi dovessimo fare attenzione ad ogni minimo rumore o al contrario come se la nostra stessa pelle fosse affidata alla capacità di muoverci nel più assoluto silenzio, addirittura controllando il respiro per non farci sentire.
In più di uno di questi cambi quasi improvvisi, che, fatemelo ribadire, contribuiscono a donare al volume un sapore cinematografico, abbiamo modo di confermare per lo meno un aspetto del carattere di Kit Willer, vale a dire la sua caratura morale. Le sue remore nei confronti del particolare ruolo che si trova a dover svolgere fanno onore al giovane ranger e ce lo confermano come un uomo, ormai non più un ragazzo irruento e dall'esperienza ancora in divenire, con una propria emotività, che sa ragionare con la sua testa e che è capace di prendere le proprie decisioni in autonomia. Quella autonomia che a giudicare da alcuni commenti inerenti storie passate spesso non viene percepita da alcuni lettori. Personalmente non ho mai ritenuto Kit come una tigre in gabbia e non ero tra il coro di chi chiedeva a gran voce una storia di cui fosse il solo protagonista, dal momento che quando la vicenda lo richiedeva, non solamente col passare degli anni ma già proprio da quando era ancora un adolescente in sella al suo mustang Diablo e seguiva il padre e Carson nelle sue prime avventure, si vedeva assegnati compiti tutt'altro che semplici. Certo con l'andare del tempo “l'aquilotto” ha acquisito sempre maggiore sicurezza ma l'apprensione paterna, condivisa con Carson e Tiger, seppur evolutasi in un sempre minore controllo, non ha mai smesso di rappresentare una delle caratteristiche del rapporto tra padre e figlio. Ma questo io lo vedo come un fatto decisamente positivo, dal momento che nella realtà accade o per lo meno dovrebbe accadere proprio la medesima cosa.
Anche di questo, ne avevo discusso in uno dei primi articoli di “Osservatorio Tex”, di cui vi fornisco il link qui si seguito, chiamato “Il volo di Piccolo Falco: dalle origini ad oggi”: http://www.fumettodautore.com/index.php/magazine/osservatorio-tex/5340-il-volo-di-piccolo-falco-dalle-origini-ad-oggi .
Kit rimane sempre e comunque coerente con se stesso senza mai abbandonare quell'innato senso del dovere né sognarsi di rinnegare la giustizia rappresentata dalla stella d'argento che porta, anche se e quando questo rischia di costargli molto caro, specialmente credendo fermamente, per lo meno fino a quando certe “coincidenze”, che perfino noi semplici cowboys/lettori notiamo e che in un paio di occasioni ci chiediamo come un tipo come lui possa farsi sfuggire, non diventano qualcosa di più di un semplice “particolare fuori posto”, di qualcosa che stona, che c'è ma che non salta subito all'occhio, e ci accorgiamo quindi che l'esperienza e l'istinto di Piccolo Falco non si erano affatto assopiti ma erano più vispi che mai. Kit forse in quest'avventura ci sembrerà più spavaldo del solito, anzi per certi verso lo sarà ma perché così “deve essere”, ed alla fine tutti i nodi verranno al pettine. In ogni caso anche se qualche aspetto del carattere del nostro “solito” giovane potrà non coincidere con il suo comportamento abituale, certamente l'ex ragazzino ora cresciuto non è affatto un ingenuo, proprio il contrario: è un tutore della legge tutto d'un pezzo, capace sì di seguire le sue idee e di sostenerle ma di riconoscere se e quando commette un errore, diventando grazie all'immenso lavoro della coppia Boselli-Majo sostanzialmente vivo, non rimanendo “intrappolato” sulla carta, lui come i Pards ed anche un paio di altri personaggi intendiamoci, con sentimenti, emozioni vivide e reali le quali spesso non possiamo che condividere.
E già che il discorso ci ha portato a parlare di una sorta di fusione tra carta e realtà, una chicca che certamente gli appassionati di western hanno notato è rappresentata dalla presenza di un certo “tizio” che assomiglia come una goccia d'acqua, nello stile di Majo, ad un grande attore protagonista di numerose pellicole che hanno fatto la storia del cinema del nostro genere preferito: sto parlando di James Coburn.
Non è la prima volta che un volto del cinema western viene preso come modello per una caratterizzazione in una storia del Ranger, anche di questo avevamo discusso brevemente mesi or sono e vi propongo solamente l'esempio legato ad una recensione di qualche tempo fa: il misterioso assassino che dà il nome all'albo "Il killer misterioso", ad opera di Civitelli su testi scritti da Nizzi, ricorda molto la smorfia da duro di Jack Palance. Ritengo queste "gemme nascoste tra le tavole" un valore aggiunto alle avventure nelle quali compaiono, strizzando l'occhio a tutti gli "aficionados", come lo siamo noi.
Tornando al Texone, possiamo affermare senza ombra di dubbio che la scelta appare maledettamente azzeccata. Il sincero ma al contempo rude sorriso a mezza bocca di Coburn si adatta perfettamente al non più giovane personaggio che Tex incontra in quest'avventura e che si rivela dannatamente in gamba oltre che con la testa sulle spalle. Per chi non ha ancora letto la storia rivelarvi la “presenza di questa star nel cast” non cambia il piacere della lettura ed anzi potrebbe far aumentare la produzione di saliva, dal momento che tale rivelazione non cambia di una virgola il gusto di scoprire il ruolo che ricopre nell'intera faccenda ed anzi a mio parere potrebbe favorire coloro i quali magari risulterebbero distratti per pensare a dove hanno già visto quella faccia, “avendo il nome sulla punta della lingua”.
Riconosceremo i connotati del “vecchio James” sul volto di Milton Faver.
Lasciatemi dire che forse anch'io adesso vi stupirò con un colpo di scena, perché presumo che non tutti sappiano che mister Faver è un ranchero realmente vissuto in Texas nella seconda metà del 1800, nella contea di Presidio. Per chi avesse ancora qualche dubbio sul minuzioso lavoro di documentazione storica che sta dietro alla produzione di ogni albo, direi che questa rappresenta la botta finale per spazzarli dal cranio una volta per tutte. E' stato uno dei primi a spingere le proprie mandrie fino a New Orleans e verso altri mercati dell'Est americano. Senza farla troppo lunga anche su questo argomento, vi basti sapere che la cittadina di Presidio è situata in Texas proprio sul confine, di fronte ad una località abbastanza impronunciabile, Ojinaga, nello stato messicano di Chihuahua. Nel 1849 un raid Comanche rase praticamente al suolo la città, dopo che i guerrieri si portarono via, e oserei dire ovviamente, anche tutto il bestiame che riuscirono a razziare.
Il celeberrimo film “Rio Bravo” con John Wayne e Dean Martin (per me uno dei più belli dell'intera carriera del Duca) parrebbe riprodurre una cittadina proprio di quella Contea.
Faver non era certo un santo e per diversi anni anch'egli contribuì alla lotta contro i Comanches. Costruì almeno tre ranch fortificati, tra cui “El Fortin de Cibolo” (il forte sul Cibolo Creek) come misura difensiva per le incursioni Comanche, Apache e di bandidos in generale.
E provate ad indovinare come si chiama il ranch nel quale vive il “nostro” Faver...
Seguendo la mia natura di segugio/ficcanaso nello spulciare diverse fonti senza fermarmi alla prima in modo da verificare i dati ottenuti, ho scoperto che fu uno dei più noti pionieri a raggiungere e costruire “il suo impero” in quella zona chiamata Big Bend, vale a dire la parte del Texas occidentale che si spinge fino al confine messicano. Attualmente comprende tre contee inclusa naturalmente quella di Presidio. Adesso l'area annovera anche il Big Bend National Park ed è superfluo dire che una delle principali città della zona si chiama proprio Presidio. Un'ultima parola riguardo il Cibolo Creek: si tratta di un fiume che si getta nel San Antonio River, nel sud del Texas e che vide sorgere attorno alle proprie sponde diversi insediamenti, alcuni divenuti centri tutt'ora esistenti. Oltre a San Antonio, una delle più popolose città del Texas e degli interi Stati Uniti, un curioso esempio che probabilmente indica la provenienza dei primi coloni ad aver messo radici in una zona non lontana da quelle acque è costituito dalla cittadina di New Berlin, un nome che è tutto un programma. Per quei due o tre che non conoscessero l'attore che ha causato questo mio ulteriore sproloquio cito solamente alcune delle pellicole che ne hanno fatto un mito: da giovane è uno dei “Magnifici sette” (di John Sturges del 1960) e già questo basterebbe, ma inoltre è il rivoluzionario in “Giù la testa” di Sergio Leone (1972), recita anche in “Stringi i denti e vai” che abbiamo citato parlando del Maxi Tex “La grande corsa”. E come non nominare lo splendido “Sierra Charriba” (1965) od il cupo ed antieroico “Pat Garret e Billy the Kid” del '73 (entrambi di Sam Peckinpah, regista noto agli amanti del genere western di una volta). Compare nei panni di John Chisum in “Young Guns 2” (1990) scontrandosi sempre con Billy the Kid, anche se per me Chisum è e sarà sempre l'inossidabile John Wayne.
Pensate che prima di scegliere Clint Eastwood, Sergio Leone aveva pensato proprio a Coburn da scritturare nel suo “Per un pugno di dollari” ma per ironia del destino furono proprio i quattrini a far cadere la scelta su Eastwood visto che all'epoca non era noto come il già famoso attore che era stato “uno dei magnifici sette” e quindi scritturarlo “costava molto meno”.
Ritratto di James Coburn ad opera di Lorenzo Barruscotto
L'incontro con questo personaggio offre oltretutto la possibilità di far tornare alla mente il bellissimo maxi “Nueces Valley”, le cui chine sono di Del Vecchio ed i testi sempre di Boselli, dal momento che per un attimo vengono ricordati, ma si tratta solamente di un paio di tavole e sotto forma di poche vignette dai dialoghi stringati, alcuni momenti della giovinezza di Tex, quando non era ancora il granitico ranger di oggi, ma un irruento e scapestrato “sbarbatello”, come direbbe il buon Carson.
Nella contea di Presidio, il ranch di Faver non è il solo posto che Tex e Tiger Jack toccano seguendo le tracce di un pericoloso comanchero, dando credito anche alla soffiata di un certo vecchio cercatore di piste, indiano Pima, tremendamente abile ed altrettanto simpatico, che abbiamo incontrato già in un paio di occasioni nella storia recente. No, amigos, stavolta non vi dirò di chi si tratta. Potete andare a rivedere le conversazioni tra Aquila della Notte e Tiger Jack se vi sfugge il nome di chi sto parlando, non fate fare a me tutto il lavoro.
Oltre ad un secondo insediamento fortificato chiamato Alamito (esiste l'Alamito Creek che è un tributario del Rio Grande nel quale confluisce nei pressi di Presidio), un'altra località tutt'altro che ricca di comodità è l'area montagnosa dei San Jacinto e delle Cienega Mountains. In una vignetta ci viene fornita anche la visuale di una cartina che corrisponde a quella di immagini reali che ho trovato nelle mie ricerche. I San Jacinto sono, in Texas, tra le cime più elevate della Contea di Presidio, attorno ai 1500 metri. Non serve rimarcare come il nome di tale catena montuosa faccia sovvenire alla mente il famoso grido “Ricordatevi di Alamo” con il quale i texani guidati dal generale Sam Huston si gettarono all'assalto delle truppe messicane di Santa Ana nel 1836 spazzando via coloro che si erano scontrati con i difensori più famosi di tutta la storia della vecchia Frontiera ed avendone ragione in soli 18 minuti, stando alle documentazioni storiche. Non si tratta comunque dello stesso “San Jacinto” dal momento che il campo di battaglia di quello scontro per l'indipendenza dello Stato dalla Stella Solitaria è situato nell'odierna Harris County, nel Texas orientale, vicino alla baia di Galveston, mentre “noi” ci troviamo in una desertica area molto più ad ovest. I monti Cienega invece si trovano a poche miglia da centri già noti ai texiani quali Topeka e Santa Fe, nella parte centrale della contea di Presidio.
Proprio da quelle parti sembra sia andato a rifugiarsi un vecchio comanchero che un tempo imperversava nella zona, un certo Robledo. Ma attenti, amigos, prima di tutto mai sottovalutare anche solamente il fatto che Tex sollevi mezzo sopracciglio quando non è del tutto convinto di qualcosa , e poi dovreste saperlo che nel West come in qualunque altro tempo e luogo, spesso le cose non sono come sembrano: di sicuro non sono mai facili ed il più delle volte sono molto peggio di come appaiono ad una prima analisi. Comunque sia faremo la conoscenza di serpenti a sonagli a due gambe che non valgono neanche lo sforzo di premere il grilletto, perfetti esempi della bassezza che l'animo umano può raggiungere, pronti a tutto pur di intascare un po' di dinero, ma avremo anche modo di ritrovarci davanti al jefe in persona, proprio quel Robledo che sembrava imprendibile per tutti, ma Tex e Tiger non sono “tutti”.
Inoltre dove sceriffi, rangers o volontari falliscono, il tempo non lascia scampo a nessuno e senza sbottonarmi troppo, già il fatto che nelle anticipazioni la “nostra” Casa Editrice definisca questo possibile nemico come “un vecchio comanchero”, dovrebbe contribuire a far accendere nella testa dei lettori più attenti una lampadina: il che ci riporta al ragionamento di poco fa.
Far fuori un gruppo di indiani ribelli, apparentemente intenzionati a “rifornirsi” presso dei rinnegati trafficanti di armi e che non esiterebbero a scotennarci nel tempo di un amen e, per buona misura, aggiungere al repulisti un branco di sciacalli che venderebbero la propria madre per mezza, neanche una intera, bottiglia di whisky non è detto che sia un male, ma i colpevoli che stiamo cercando potrebbero essere altri.
Ma chi o cosa diavolo è un “comanchero”? So bene che per molti questa domanda equivale ad un'eresia però mi sento in dovere di buttare ancora un po' di fiato per chiarire il significato di questo termine.
Nonostante il nome possa farlo pensare, non si trattava unicamente di gente di origine messicana ma con questo appellativo si indicavano tutti i trafficanti senza scrupoli che smerciavano armi e whisky, solitamente entrambi di scadente fattura, agli indiani. Non stiamo parlando di trapper o uomini d'affari onesti che intrattenevano scambi con le tribù di diverse etnie, commerciando ad esempio in pelli, farina, tabacco o forniture utili e soprattutto legali. Il loro raggio d'azione comprendeva territori appartenenti agli stati di New Mexico, Arizona e Texas, in sostanza le zone delle grandi praterie ed il loro nome deriva dal fatto che, come dire, i principali “clienti” di questi biechi individui almeno in un primo tempo furono proprio i Comanches. Tali sporchi traffici includevano anche bestiame e cavalli, ovviamente di sicuro non acquistati regolarmente, e perfino prigionieri che venivano anche usati come moneta di scambio. Inutile sottolineare come questo tipo di “compravendita” soffiasse sulle fiamme della rivolta spingendo molte teste calde in cerca di gloria ad attaccare i coloni e compiere razzie al fine di ottenere merci valide per i loro alleati Comancheros, soprattutto se quelle bande puntavano ad aggiudicarsi fucili o acqua di fuoco. Bisogna comunque ammettere che libri e film hanno contribuito a confermare o “peggiorare” la comunque tutt'altro che candida fama di questi balordi, e tanto per citare un esempio, come non ricorrere al sempre mitico John Wayne, che interpreta un ufficiale dei rangers nel famoso film “Comancheros” del 1961. Sembra strano ma le “rotte commerciali” solitamente seguite da questi tizi erano piuttosto conosciute, ricalcando "old trails” vale a dire piste seguite da coloni ai tempi di migrazioni in tempi precedenti i periodi delle lotta tra texani e pellerossa.
Visto che anche in questo volume si parla di uno di questi commercianti seppur ormai in declino, si può dire che un colpo decisivo al periodo d'oro degli affari, cioè le guerre indiane soprattutto in Texas, venne assestato proprio quando Quanah Parker ed i suoi Quahadi si arresero alle giacche blu per poi, come abbiamo detto, essere assegnati alla riserva di Fort Sill, nei territori dell'Oklahoma.
Non temete, siamo quasi giunti, sottolineo "quasi", in vista della fine di questa lunghissima chiacchierata ed avrò anche modo di spiegarvi il motivo della peculiarità di questa recensione. Se non altro ora vi è chiaro il motivo per cui vige la regola secondo la quale dovete consegnarmi i ferri da tiro quando siete al Trading Post: non si sa mai come potrebbe reagire un amante di discorsi maggiormente concisi…
Scherzi a parte, direi che riguardo la Storia con la S maiuscola e quella narrata in questo volume è stato sviscerato, quasi, lo ripeto ma non per spaventarvi, ogni argomento che si potesse trattare senza svelare niente di compromettente. Riguardo questa vera e propria opera d'arte di 240 pagine resta da dire qualche parola sulle capacità artistiche dimostrate dall'autore dei disegni. Gli intensi chiaro scuri e lo stile pulito e deciso vengono utilizzati come armi per stupirci e colpirci con la stessa maestria con cui i Nostri maneggiano le Colt. Tale abilità offre il meglio di sé nelle espressioni dei primi piani: da uno sguardo ironico atto a sottolineare una battuta sprezzante ad un amichevole sorriso scambiato tra due amici fraterni, da un'occhiata carica di inaspettato astio e rancore allo stupore mescolato a delusione e rammarico che possiamo leggere sul volto di chi non se lo aspetta, dalle arcigne facce di cattivi che sono anche, lasciatemelo dire, veramente dei brutti ceffi al caratteristico volto che si ispira ad una “faccia da schiaffi” del cinema, grazie alle cui variazioni e sfumature ci sembra quasi di udire, immaginandocela ognuno nel nostro modo diverso, la voce del personaggio in questione, una voce roca, autorevole e brusca ma che automaticamente infonde sicurezza e rispetto.
Disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a MAJO
Un'ulteriore lancia va spezzata per la magistrale organizzazione delle scene d'azione, anche le più furibonde, dove le sparatorie possono esplodere violente ed improvvise ma nelle quali mai nulla viene lasciato al caso, segno del grande impegno presente dietro le quinte di questo favoloso “spettacolo”.
Se i disegni, da soli, potrebbero bastare a fare di questo “malloppone” una vera opera d'arte, l'aggiunta dei testi inseriti nelle tavole come se si trattasse davvero di parole impalpabili invece di “cose da leggere”, in modo da non farci neanche accorgere che ci sono, grazie al sempre ottimo lavoro al lettering di Renata Tuis, costituiscono la ciliegina sulla torta e lo rendono a mio parere un capolavoro, polveroso, a tratti brutale nella sua attinenza a fatti reali, duro e crudele come sa essere solo la vita vera, che a volte ci colpisce come la sferzata di uno scudiscio, inaspettato e repentino come lo schiocco di una frusta.
Tanto di cappello anche di fronte alle caratterizzazioni, non solamente tra i buoni ma anche tra le fila dei cattivi. Non è insolito scoprire che un nemico giurato può dimostrare un certo grado di lealtà stupendo perfino chi ne ha viste di tutti i colori e, personalmente, quando vengono rappresentati esempi, di qualunque genere siano, di onore e rispetto reciproco anche e soprattutto tra avversari, io vengo letteralmente conquistato. Non servono troppe parole (vi immagino pensare qualcosa del tipo “lo dici a noi dopo è da un'ora che stai blaterando!”) ma basta una mano tesa, un cenno perfino dopo anni passati su barricate opposte per provare pietà verso il nemico sconfitto. Badate, non intendo pena, ma un misto di clemenza, compassione e riconoscimento del valore dimostrato anche se si combatteva dalla parte sbagliata. E bisogna ammetterlo, in questa faccenda i cattivi, quelli veri e non le mezze cartucce capaci più a muovere la boccuccia spaventando gli indifesi che far sentire il tuono delle loro sputa-fuoco quando c'è da fare sul serio, sono tutti gente in gamba, esperti nell'uso delle armi e forniti di una buona dose di fegato. Sicuri di sé fino a trascendere nell'arroganza, errore che i Nostri invece non commettono mai, non abbassano la guardia neanche quando vi sorridono spavaldi ma se un cattivo riesce a risultare perfino, quasi, simpatico e non possiamo non ammettere che sia un tipo deciso, battagliero ed energico, a suo modo un “hombre valiente”, altri cattivi appaiono un branco di ignoranti fanatici carichi di idee sbagliate e riempiti di odio fino agli occhi mentre sarà con il vero “villain”, l'anima nera della situazione che dovremo stare davvero con gli occhi aperti ed il dito sul grilletto, anche e soprattutto quando avrà consegnato i ferri da tiro e sembrerà rassegnato alla sconfitta. Una frase tipicamente western che abbiamo udito o letto molte volte recita “un serpente non è mai disarmato”. Niente di più calzante.
Come nota a parte merita il ruolo giocato in questa sporca faccenda da Carson, ruolo tutt'altro che di secondo piano. Ma non intendo focalizzare l'attenzione sull'importanza di Capelli d'Argento nell'andamento dell'avventura quanto piuttosto sulla sua funzione diciamo più in generale. Carson rappresenta non solamente l'esperienza e la voce del buon senso ma soprattutto la rettitudine senza dubbi né incertezze. La correttezza, l'irreprensibilità e l'integrità di un ranger, di un veterano che ha sempre vissuto servendo la legge e la giustizia, un uomo che non solamente crede fortemente nei principi di onestà, lealtà e valore ma che li incarna appieno.
Il Vecchio Cammello, così come Tex, non è un superuomo e non è esente da umanissime e comprensibilissime considerazioni soprattutto quando si tratta di coloro ai quali tiene e per cui darebbe senza esitazione la vita, ma è proprio per questo genere di abnegazione unita ad un incrollabile senso del dovere che fa e sa di fare sempre la scelta giusta.
Così come, nonostante appaia un controsenso, umanissimi e del tutto legittimi sono i dubbi e le incertezze di un personaggio che quando fa la sua apparizione non sembra emergere dallo sfondo, restando come una tra le tante in un coro di risate, ma lo sceneggiatore ci sorprende ancora una volta trasformando quel “tipo qualunque” anche se proprio qualunque non lo era mai stato a dire il vero, in un uomo coraggioso e soprattutto molto più sveglio di quello che ci saremmo aspettati di primo acchito, uno che sa far funzionare il cervello senza venire accecato da falsi miti e che riesce a trarre le proprie conclusioni, non importa se alla fine si rivelino amare e parecchio indigeste da mandar giù. Questo suo modo di essere quindi lo spinge ad agire correttamente ed a schierarsi dalla parte della verità ed anche a combattere con valore, ma non lo rende esente da comprensibili titubanze che scuotono la sua coscienza. Il suo essere così “umano”, così vero, a mio giudizio, dopo una qualche diffidenza iniziale, poiché nel West ma anche oggigiorno non bisogna mai fidarsi di nessuno senza aver preso prima per bene le misure, lo ha fatto schizzare tra i miei preferiti dell'intero racconto, insieme a quel tale “cattivo dalla pelle dura che se anche è un cattivo non è così bastardo” ed a Milton Faver/James Coburn. Beh, hermanos, i Pards sono fuori classifica altrimenti non ci sarebbe gara.
Probabilmente molti di voi penseranno che devo aver preso troppo sole ma questo così ben tratteggiato “tizio comune che però comune non è” mi ha fatto ripensare ad un altro personaggio di una storia di qualche tempo fa, proposta nuovamente in tempi assai recenti sotto forma di ristampa: vi dice niente il Tenente Baines? Assegnato come “rinforzo” ai Nostri per una pericolosa missione in Messico in qualità di ufficiale di collegamento dell'esercito, il “povero” Baines si troverà da un giorno all'altro ad essere un allievo alla dura scuola di vita della Frontiera con quattro professori d'eccezione ma la sua umiltà ed il suo indubbio valore che man mano emergerà durante la storia faranno ricredere perfino un inizialmente scettico Carson sulle capacità del giovane, che proprio per ammettere i propri limiti e dichiararsi disposto ad imparare il più possibile da Tex e gli altri dimostra carattere e spina dorsale, molto più di chi invece riesce a “vendersi bene” ma che in realtà è tutto fumo e niente arrosto. Intendiamoci, i due personaggi messi a confronto appaiono e sono molto diversi tra loro ma credo (spero) di essere stato in grado di spiegarvi il motivo di questo mio parallelismo. Sia il giovane ufficiale di “Spedizione in Messico” e “Rurales!”, avventura firmata ai disegni da un bravissimo Dante Spada su testi di Boselli, che il tipo nel Texone, secondo me, hanno il ruolo di fungere da contraltare al fine di farsi spiegare, e quindi di renderle note anche a noi, le mosse da eseguire, i trucchi che potrebbero fare la differenza tra una pallottola nella schiena o l'assistere all'alba del giorno successivo e le motivazioni di certi comportamenti che potrebbero suscitare anche nel lettore emozioni contrastanti, proprio come accade nel loro animo. Insomma, a parer mio, costituiscono una sorta di canale di comunicazione, a volte ben celato a volte più evidente, tra il lettore e la Leggenda.
"Un'entrata ad effetto": disegno di Lorenzo Barruscotto, tributo a MAJO
I due fuoriclasse Boselli e Marcello sono anche stati gli autori di una storia inerente proprio i difficili rapporti tra abitanti del Texas, Rangers e Comanches, in una loro trasferta su Zagor: una lunga avventura che inizia sul volume “Fratelli di sangue” e si conclude in “Sfida sui monti Wichita”, un'avventura in effetti dal sapore molto texiano e non soltanto perché ambientata nelle Bad Lands, sebbene antecedente all'epoca in cui cavalcano i Pards, poiché Zagor vive le sue vicende nella prima metà del 1800. Sempre Boselli era stato lo sceneggiatore della storia zagoriana “Comancheros” che proseguiva poi con “Texas Rangers” disegnata da Stefano Andreucci (il nome non giunge nuovo, vero?), dimostrando un certo fascino che l'argomento deve esercitare sul curatore di Tex. Lo stesso modo di esprimersi del ranger Adam Crane, uno dei protagonisti, ricorda quello dei Nostri mentre il capo dei Comanches si chiama Lupo Grigio, il leader dei Quahadi, ma vengono inoltre nominati i Penateka ed i Kotsoteka. perciò anche in quelle occasioni gli approfondimenti storici sono ben evidenziabili.
Arrivati a questo punto vi starete chiedendo la ragione di questa mia parentesi inerente lo Spirito con la Scure quando sembra che io mi sia dimenticato di un evento chiave che compare nell'avventura narrata nel Texone. Ecco, “sembra”...
Nella storia disegnata da Marcello viene presentato come antefatto quello che avrebbe dovuto essere un inizio di trattative di pace e di riconsegna di prigionieri bianchi da parte dei Comanches, per lo meno una "fetta" dei ribelli, stanchi delle privazioni che le continue battaglie imponevano a donne e bambini dei loro villaggi, alla presenza del colonnello Stephen Austin, il "padre del Texas", comandante dei Rangers, presso San Antonio, Texas. Non temete, non intendo perdermi in un'ulteriore digressione per raccontare vita, morte e miracoli dei "vero Stephen" (anche perchè risulterebbe quanto meno ridondante fare una digressione partendo da una digressione ed inoltre sono certo che oramai molti di voi conoscono il ruolo che questo patriota giocò nella storia del suo Paese ma in ogni caso potete trovare qualche nota su di lui nel link inerente la storia del Corpo dei Rangers che ho allegato poche righe dopo la copertina dell'albo, più o meno un paio di vostri sbadigli fa) ma vi dico solo che la città di Austin, prende il nome proprio dal leader texano. Una sola donna superstite venne “restituita” dalla delegazione di guerrieri, motivando l'assenza di altri ostaggi con l'impossibilità di parlare per tutte le altre tribù della Nazione Comanche né di poter imporre decisioni ad altri capi. Non credo serva aggiungere che questo fa esplodere la furia dei texani e che il tutto si risolve in un violento scontro dove molti indiani mordono la polvere, praticamente quasi tutti tranne uno sparuto gruppetto che riesce a fuggire per tornare alla Comancheria e riferire l'accaduto.
Il medesimo episodio viene narrato sotto forma di flashback anche nel Texone: Muguara, capo dei Penateka Comanches vuole la pace e come segno di buona volontà riporta una “squaw bianca”, purtroppo la sola a non aver ceduto ai patimenti della dura vita presso i pellerossa. Nella versione texiana come rappresentanti dei bianchi ci sono anche alti funzionari dell'esercito, tra cui un certo Colonnello Cook, raffigurato come un tipo particolarmente sanguigno, probabilmente, nelle vesti di portavoce lo stesso Austin (mi sento di affermare, anche se non potrei giurarlo, che i disegni di Majo sembrano riprodurre piuttosto fedelmente i tratti somatici del colonnello, avendoli confrontati con alcuni dipinti e vecchie stampe che lo raffiguravano) e sempre probabilmente anche Matthew Caldwell, uno dei firmatari della Dichiarazione di indipendenza del Texas e uomo di fiducia presidente dello Stato all'epoca dei fatti, anch'egli nominato nel Texone, Mirabeau Lamar, il quale lo rese in seguito capitano di una squadra di Rangers per difendere la frontiera con il Messico. Si tratta di “capi bianchi” non proprio di larghe vedute, i quali invece di gettare acqua sul fuoco, pare quasi che si ostinino a non capire le ragioni degli “ospiti”, comprensibilmente ostiche per una mentalità non indiana, anche di questo bisogna rendersene conto, snocciolando però una provocazione dopo l'altra. L'esito è lo stesso: molti Comanches uccisi nel furioso scontro a fuoco che ne deriva, altri presi prigionieri ed un pugno di guerrieri che si fa largo con le armi e riesce in un primo tempo apparentemente a fuggire. La differenza consiste nel fatto che nell'albo di Tex, ed in sostanza è ciò che a noi interessa, l'episodio viene raccontato dal punto di vista dei bianchi, dal punto di vista di un testimone presente al fatto, ed il cui scopo, non dichiarato anche se piuttosto chiaro a tutti, nella vita è sostanzialmente sotterrare ogni Comanche che gli capita a tiro.
Sono certo che avete già capito a chi mi riferisco.
Prima ho detto che la conclusione dello scontro non poteva che essere la medesima: infatti non si tratta di “una” storia ma ancora una volta siamo davanti alla Storia, quella vera. Nello specifico, viene reinterpretato piuttosto fedelmente un episodio noto come “Council House Fight” o anche “Council House Massacre”, il che rende meglio l'idea, avvenuto nel marzo del 1840, come detto, a San Antonio. La negoziazione aveva lo scopo di definire i confini della Comancheria mentre i texani pretendevano la restituzione di tutti i prigionieri catturati in anni di razzie e di guerra. Quasi l'intera delegazione venne annientata, tutti i capi presenti uccisi. La prigioniera riportata si chiamava davvero Matilda Lockhart, come afferma lei stessa nello speciale, una ragazza di meno di vent'anni. Civili armati si unirono alla battaglia che purtroppo causò la perdita anche di vite tra donne e bambini che la delegazione aveva portato con sé: si trattava delle loro famiglie. Da documenti ufficiali sembra che nella realtà storica solamente un guerriero sfuggì all'accerchiamento, altra perfetta attinenza con il racconto, riuscendo a lasciare San Antonio mentre anche coloro che erano scampati ai primi spari vennero colpiti uno dopo l'altro. Questo episodio, considerato (fate un po' voi) un tradimento, dal momento che nella cultura Comanche un “concilio” era ritenuto sacro - che selvaggi questi selvaggi, non è vero? - diede il via ad un sempre più sanguinoso botta e risposta a base di attacchi, torture e scontri.
Quell'oltraggioso evento scatenò anche il “great raid” del 1840 che costò morti e distruzione alle città di Victoria e Linnville, una piccola località portuale, in Texas. Quasi 500 guerrieri vennero impiegati in queste incursioni, dozzine di coloni morirono e molti altri videro le loro case date alle fiamme e rase al suolo. Anche il capo di guerra di tale "rivolta" viene fugacemente chiamato in causa nel Texone: Buffalo Hump.
Il tutto ebbe fine nella Battaglia di Plum Creek dove Rangers (anche quelli di Caldwell) e miliziani si scontrarono con i cavallerizzi Comanches. Pare che all'incirca un centinaio di guerrieri rimase sul terreno a fronte di meno di una quindicina di bianchi, ma il numero probabilmente fu maggiore perchè quello scontro fece momentaneamente calare il sipario sugli attacchi di rappresaglia, però sembra che le perdite tra gli indiani avrebbero potuto essere anche più ingenti se i texani non si fossero interessati anche a recuperare tutte le refurtive rubate durante le incursioni.
Ritratto di John Wayne ad opera di Lorenzo Barruscotto
In questo gigantesco volume (gigantesco per la forma ma che, sempre secondo me, non dovrebbe essere chiamato “Tex gigante” come ho visto fare da alcuni addetti ai lavori di primo pelo poichè quello è il “nome e cognome” dei volumi regolari, che siano inediti o ristampe e che viene considerato il formato bonelliano per eccellenza: nonostante attualmente non ci siano più in circolazione come una volta le strisce di Tex, a parte mercatini ed eventi dedicati, e quindi i “normali giornalini” non debbano più essere differenziati da quel formato tascabile, si tratta di tradizione, di storia del Fumetto, senza contare che il termine Texone ormai è da molti anni in voga – questo è il numero 33 – e suona bene così senza creare confusioni) sono come sempre presenti anche alcuni articoli che precedono la storia vera e propria.
Il primo articolo è scritto da un nome che abbiamo imparato a conoscere specialmente per alcune esternazioni piuttosto originali, Graziano Frediani. Mi sbilancio affermando che anche in questa occasione non resteremo delusi. Anzi, sinceramente io sono rimasto abbastanza basito, proprio come mi era accaduto in passate esperienze di lettura su anche soltanto trafiletti scritti dal summenzionato autore. L'articolo in questione si intitola “Un padre e un figlio” ed a parer mio non sembra del tutto attinente con la storia che abbiamo analizzato fino ad ora. Voglio dire: senza cadere nello spoiler, Tex e suo figlio, in quest'avventura praticamente quasi non si incontrano, dedicandosi come vi ho detto a diversi aspetti della stessa indagine quindi basare un intero articolo, fortunatamente solamente di due pagine, su un ipotetico rapporto conflittuale tra i due appare come minimo, lo ripeto, poco attinente e non soltanto al volume. Non parto prevenuto quando leggo il nome sotto il titolo di un reportage o articolo ma vi posso garantire che anche alla terza lettura il grosso punto interrogativo che avevo sulla zucca c'era ancora. A parte il domandarsi come mai le due pagine in questione siano scritte in bianco su sfondo nero mentre tutte le altre tornino alla normalità, cioè parole in inchiostro nero su sfondo bianco, vengono avanzate delle considerazioni non proprio da attento appassionato di Tex. Mi posso sbagliare, anzi certamente mi sbaglio e ripeto che queste sono solamente mie considerazioni a titolo personale. Però, diavolo, è tutto lì, nero su bianco… beh, è tutto lì, scritto.
E' bello ritrovare per intero “lo strillone” che introduceva la figura di Kit Willer nei lontani anni Cinquanta quando il "giovanotto" faceva la sua comparsa all'interno del quartetto ma credo che inizi a risultare, se posso permettermi, un po' ripetitivo confrontare sempre la resa stilistica di un disegnatore moderno che realizza con la propria mano ed il proprio carico di esperienze un personaggio così noto con il tratto essenziale ma geniale ed indimenticabile del creatore grafico di Tex, cioè il grande Galep. Tra l'altro sarebbe carino citare il numero di Tex “Gigante”, tanto per richiamare il discorso di poco fa, in cui compaiono le vignette realizzate da Galep prese ad esempio e pubblicate a lato dell'articolo, parallelamente allo sfoggio dei titoli delle singole strisce in cui sono contenute, dal momento che non tutti i lettori possono ricordarsele una per una né tanto meno possederle. Stesso discorso per il ripetere ogni qual volta si parli di Piccolo Falco, che con lui si completa il poker d'assi di eroi che corrisponde ad una versione con pistole e fucili invece di spade e cappelli piumati dei Moschettieri di Dumas, come voleva il mitico Gian Luigi Bonelli (tre più D'Artagnan).
Questo in effetti è un particolare che magari non tutti sanno e quindi vi assicuro che non è con un atteggiamento da secchione saputello che vi esterno questa considerazione ma lo stesso discorso è stato fatto sempre dall'amico Frediani nell'introduzione de “Il battesimo del fuoco di Kit Willer” nella collana Tex Classic, la ristampa delle vecchie avventure a colori, uscito nelle edicole poco prima che iniziasse la diffusione delle statuine celebrative dei Pards, quindi non molto tempo fa. E' la stessa prefazione che avevo già citato in una recente recensione, in cui il soprannome di “Billy the Kid viene tradotto con “Billy il Monello”, la qual cosa tutt'oggi mi suscita una innaturale risata accompagnata da un tic nervoso degno dei film di Fantozzi.
Comunque sia, voi direte che esagero e che a pensarci, non c'è nulla di male nella ripetizione di un concetto. Lo dicevano anche i Romani: repetita iuvant. Verissimo. Il fatto è che l'articolo continua. E vi dirò di più, per un tratto sembra continuare anche in modo coinvolgente, finalmente sintonizzandosi sulla passione che accomuna tutti noi e che dovrebbe trasparire da parte di chi lavora per la Leggenda, senza che il tutto, cosa di cui alla fine si ha l'impressione, diventi un compito a casa con poche emozioni o per dirla in un modo più consono ad un appassionato di cucina (a giudicare da cosa c'era scritto sul suo articoletto comparso nell'ultimo “Magazine”) con relativamente poco condimento. Ciò che mi chiedo e che suppongo vi chiederete anche voi è se il signor Frediani abbia letto il Texone. Intendo questo Texone. Infatti tutto l'articolo vuole arrivare ad affermare che nelle pagine del volume lo sceneggiatore ha ideato un epico e drammatico scontro tra padre e figlio tra “l'Aquila della Notte ed il Piccolo Falco”. Fatemi dire che aggiungere gli articoli non ha un grande impatto proprio come non ha senso cambiare i testi nelle ristampe e far chiamare Tex dalla moglie “il mio uomo” invece di solamente “mio uomo”, cancellando con due lettere, “IL”, tutta la dolcezza e la poesia di quelle parole. Comunque, a parte il fatto che detti in questo modo non si possono sentire e che neanche 70 anni fa i Navajos, Lylith compresa, hanno mai chiamato Tex “l'Aquila della Notte” ma compare solamente un caso in cui viene affermato che “l'aquila è tornata al suo nido” (e sentite che musica per le orecchie ancora dopo anni e anni), amigo, anzi no, praticamente tutti mi invitano sempre a dar loro del tu ma credo sia meglio restare formali, mister Frediani, non c'è nessuno scontro. Né generazionale, né verbale, né fisico.
“Litigare”, secondo il DISC, il Dizionario Italiano Sabatini Coletti che ho preso in qualità di "rinforzi" dalla mia libreria, significa “discutere con animazione pronunciando ingiurie o offese, avere un violento contrasto, bisticciare”. Ma qui la sola lite è con l'evidenza dei fatti: vengono manifestati ad alta voce dei pensieri e delle opinioni da entrambe le parti, legittimi sia in un caso che nell'altro, ma non reciprocamente. E le considerazioni dal lato genitoriale vengono comunque chiuse piuttosto in fretta, manifestando una matura e nobile fiducia nelle capacità di discernimento del “rampollo” che può sì a volte mordere il freno, cosa assai rara comunque, in altre circostanze perfino Tiger scherza sull'argomento proprio direttamente con Piccolo Falco (la storia in questione è “I giustizieri di Vegas” se la memoria non mi gioca un brutto tiro), ma che ha la testa ben piantata sulle spalle e tutto il diritto di per lo meno esprimere un certo dissenso nei confronti di un'opinione non condivisa.
Ho già parlato abbondantemente in altre parti di questa mia lunga analisi del legittimo, qualora venuto a galla, bisogno di libertà e di affrancamento di Kit ma comunque sempre cucito addosso a Piccolo Falco, a com'era e com'è, da ragazzo o da uomo, e mai nei decenni di storia ci sono stati scontri dettati dalle aspirazioni di indipendenza del figlio di Tex. Le sole volte in cui ci sono state delle divergenze che mi sovvengono si possono trovare nello stupendo Texone “Patagonia”, realizzato da Frisenda su sceneggiatura di Boselli, quando i due Willer si abbandonano ad un drammatico, quello sì, abbraccio oppure penso alle volte in cui Kit disubbidendo agli ordini paterni fa di testa sua, spesso anche salvando la pelle al Ranger ed agli altri pards. Ma Piccolo Falco è “sempre stato così, impossibile tenerlo a freno” come, quasi esasperato ma in realtà orgoglioso, lo stesso Tex spiega allo scout Johnny Laredo al termine dell'avventura contro il profeta, disegnata dal maestro Ginosatis (“Nel covo del profeta”, testi dell'onnipresente Boselli).
Inoltre per quanto inesperto, nelle sue prime avventure Kit era tutt'altro che imbranato o “bisognoso di continue cure per essere svezzato": salva diverse volte la pellaccia a Tex e Carson cavandosela egregiamente in situazioni che metterebbero in difficoltà Batman o qualche moderno e “calzamagliato” super-eroe (visto che piacciono i titoli delle strisce, le cosiddette testatine, come non citare “Kit Willer si fa onore”) e lo stesso Carson, dopo che il suo figlioccio ha risolto un caso complicato in sostanza tutto da solo trovando le prove principali grazie alla sua abilità e dimostrando di essere anche bravo negli "assoli di clarino", si toglie tanto di cappello affermando che alla sua età lui era solamente in grado di spingere le vacche sui pascoli. E chi non si ricorda come il ragazzino in una intensissima sequenza riesca nuovamente a salvare da un terribile incendio doloso, caricandoseli uno dopo l'altro sulle spalle, i due Rangers, entrambi ko perchè messi fuori combattimento da vino drogato.
Ma a parte queste inezie, il fulcro resta questo: non c'è nessuno scontro, nessun litigio tra padre e figlio. Quelli che si menano e che abbiamo visto nelle anticipazioni sono Kit Willer e Kit Carson, se proprio vogliamo dirla tutta, ed anche su questo argomento ne ho già sparate parecchie di cartucce.
Un'ultima precisazione: se è vero come è vero che anche Kit tra qualche anno compirà 70 anni di vita editoriale, direi che è per lo meno azzardato affermare che la sua “crescita” si sia assestata ai vent'anni di età. Non sarebbe meglio dire sui trenta? Volete un compromesso e fare tra i venticinque ed i trenta? Andiamo, è già stato praticamente quasi vedovo, ed in certe storie moderne affidate alle abili mani di colonne del Ranger è da parecchio che i suoi lineamenti non ricordano più quelli di un ragazzo ma sono più simili a quelli di un uomo. Oserei dire che per quanto mi riguarda, proprio la storia che inizia con “L'uomo senza passato” me lo ha fatto vedere come un po' più cresciuto, sia per le vicende in cui si trova coinvolto sia per i disegni di Villa, autore non solo delle copertine ma proprio di tutta l'avventura che si snodava su due albi ed un pezzo.
Quindi va bene affermare che Kit è ancora impulsivo, anche se molto meno dei suoi inizi di carriera, ma non va affatto bene promettere scintille quando in realtà si cade non solamente, concedetemi un termine un po' forte, in una certa banalità ma si risulta un po' confusi sull'argomento del quale si parla.
Per mutuare una celebre frase da duri di film western, quando un uomo con il Texone incontra un uomo che scrive sul Texone ma che non lo ha letto o se lo ha letto pensava ad altro, l'uomo con il Texone non può che mettersi le mani nei capelli.
E' chiaro che queste mie critiche lasciano il tempo che trovano e che assolutamente non devono essere considerate attacchi a livello personale. Non lo sono mai, non è il mio stile e non sopporto quando qualcuno trascende i toni, essendo in più occasioni divenuto proprio oggetto di tali comportamenti. Io nutro un forte rispetto nei confronti del lavoro di tutti coloro che partecipano alla realizzazione degli albi che leggiamo e quindi invito sia voi che eventualmente l'interessato a captare il mio tono di ironia, quando mi permetto di far notare alcune discrepanze in certi punti. La stessa enfasi che magari a volte può trapelare è semplicemente dettata dall'entusiasmo e dalla mia passione nei confronti del mitico eroe dalla camicia gialla.
Fortunatamente, dopo una interessante intervista che ci presenta il disegnatore di questo speciale, dove scopriamo che gli ispiratori dichiarati dell'artista bresciano sono Nicolò e Ticci, a farci tornare il sorriso ci pensa il sempre roccioso Luca Barbieri con l'articolo dal titolo “I diavoli del Texas”. Compito non facile il suo, vale a dire quello di racchiudere in poche pagine la storia del corpo dei Rangers spargendo qua e là riferimenti a singoli eventi divenuti leggendari od a film e romanzi. E' proprio tra le pagine dell'articolo di Barbieri che possiamo ammirare un reminder, un promemoria, su Marshall, lo vediamo disegnato da Galep, e sull'assedio della Lost Valley, che ho nominato anch'io nella mia disamina. C'è un riferimento ad una data precisa che oramai noi texiani fatti e finiti conosciamo, 1838, ma lascio a voi scoprire cosa effettivamente accadde in quell'anno, oltre ovviamente alla nascita di un certo Tex Wller, figlio di Ken e Mae.
Pur trattando un argomento che ben poco si può discostare dalla fantasia, l'autore dell'articolo riesce a risvegliare quel trasporto e quell'entusiasmo che erano stati spodestati dai famosi punti interrogativi di prima, dimostrando non solo una navigata esperienza come scrittore ma anche un'accuratezza nella ricerca di documentazione storica e nel fornirci dettagli che stuzzicano il nostro palato di appassionati di western e della vera Storia dell'Ovest americano. Armi, nomi di persone e di battaglie, alcune delle quali trovate citate inevitabilmente anche da me, (in questo articolo come in altre recensioni precedenti: ad esempio in occasione dell'uscita di "Nueces Valley" o di "Giustizia a Corpus Christi", il cartonato che vede Mastantuono ai disegni, i quali vedono entrambi super-Boselli alla sceneggiatura, mi ero trovato ad affrontare ad esempio il complicato argomento dell'evoluzione delle armi da fuoco dalle pistole ad avancarica alle Colt ultimo modello. No, tranquilli, niente più link allegati visto che si tratta di recensioni molto vicine nel tempo, ma se volete andare a riprendere gli argomenti dando nuovamente una rapida guardata non mi offendo di sicuro): particolari e precisazioni che preparano a dovere il lettore all'avventura a fumetti che segue.
Non sono pochi coloro che hanno notato la mancanza del classico bollino dei 70 anni, che compare da gennaio su tutte le uscite di Tex, per l'anno delle celebrazioni. Pare si tratti di una semplice dimenticanza, confermata dagli stessi autori durante una delle serate di presentazione del volume ma l'assenza di tale “timbro” non scalfisce affatto la maestosità del prodotto. Sinceramente non sono queste le sviste che minano la qualità di un prodotto, ma ce ne sono di ben altro calibro, come considerare lo slogan di uno chef, cioè “addios”, sì esatto con due D, l'ultimo baluardo del western in tv (e verrebbe da dire “oddios” per fare una facile battutaccia) o peggio ancora far investire un cervo da un'auto in pieno deserto e considerarlo un episodio del tutto normale e plausibile, come se chiunque abiti all'ultimo piano di un palazzo con un tetto all'americana potesse vedersi atterrare sulla testa Babbo Natale in un pit stop durante la consegna dei regali e non fare una piega.
Notizie inerenti i Comanches ne abbiamo dette parecchie, ma se ne possono aggiungere ancora un paio.
La Comanche Trail è una famosa pista tracciata dagli spostamenti delle tribù nomadi che vi avrebbe portato non solo a sicure sorgenti di acqua dolce, le Comanche Springs, vicino a Fort Stockton, Texas, fonte di salvezza in pieno deserto, ma seguendola avreste potuto raggiungere El Paso, San Antonio fino al Rio Grande e poi Chihuahua. Avreste incrociato il fiume Pecos per proseguire nella “branca” nord fino al Colorado ed ovviamente all'Oklahoma.
Ci sono due cittadine chiamate Comanche, una in Texas e una in Oklahoma. Quella texana è situata nella Comanche County (poca fantasia da quelle parti, oppure tanta storia data la presenza del Comanche County Historical Museum).
Disegno di Lorenzo Barruscotto
Muy bien, siamo in dirittura d'arrivo ed è tempo che vi spieghi perché stavolta ho scelto di scrivere, concedetemi la battuta, forse non tanto saggiamente, un “saggio” più approfondito del solito, invece di un articolo od una normale recensione: “Osservatorio Tex” ha compiuto il suo primo anno di vita!
Un anno fa, esattamente il 30 giugno, veniva pubblicata una, timida nella forma ma già texiana nello spirito, recensione sul sito "Fumetto d'Autore", quello che tutt'ora mi e ci ospita, la quale poi avrebbe dato il via alla Rubrica vera e propria.
Era la recensione di "La pista dei Forrester", storia alla quale sono particolarmente affezionato.
Con l'andare del tempo la mia rubrica si è guadagnata un piccolo grande spazio, ho creato una sorta di testata identificativa, che comprende un mio tributo all'autore proprio dei disegni della prima avventura recensita, il grande Lucio Filippucci, che ringrazio ancora una volta per la gentilezza ed anche per la dedica personalizzata che arricchisce la pagina dove si trova l'elenco delle recensioni.
I numeri raggiunti sono notevoli e per certi versi per me anche inaspettati. Molte recensioni hanno superato le parecchie migliaia di visualizzazioni mentre quella su un film, la sola che ho fatto non legata a Tex ma sempre in ambito bonelliano, vale a dire quella su "Monolith" ha superato di parecchio le 10000.
Per prima cosa ci tengo a ringraziare Stefano, colui che ha dato retta ad uno sconosciuto rompiscatole e poi i capi, Alessandro Balsamo per avermi offerto la possibilità di dire la mia a modo mio e per continuare ad offrirmi il privilegio di farlo ed anche, ovviamente, Alessandro Bottero per lo stesso motivo.
Fino ad ora sulla pagina ufficiale della Bonelli sono state condivise 10 delle mie recensioni e ricordo ancora l'immensa sorpresa mista a vibrante soddisfazione quando per caso mi sono accorto che "quella mi sembrava di conoscerla": era la prima condivisa. Non so se posso osare citarli qui ma ringrazio anche “loro” per la cortesia e la professionalità con cui mi hanno sempre parlato. Una Leggenda si costruisce anche così.
Farò del mio meglio per continuare a dare un'impronta genuina sempre da texiano per i texiani senza spoiler, con il rispetto dovuto a chi si prende la briga di leggere i miei articoli ed agli addetti ai lavori.
Non voglio che questo diventi una specie di discorso “di ringraziamento come accade alla notte degli Oscar” ma vorrei ancora aggiungere che in quest'anno non sono stati pochi gli artisti che hanno manifestato, per usare un parolone, feedbacks positivi nei confronti delle chiacchierate che facciamo qui al Trading Post, offrendomi anche apprezzatissimi incoraggiamenti, il che ovviamente per me è e sarà sempre motivo di orgoglio.
Non meno importante, anzi tutto il contrario, è il supporto e la risposta che ho ottenuto da gruppi e pagine social "texiane e fumettare", qualcuna improntata anche sulla storia del West (come "Farwest.it" che ho nuovamente utilizzato in questa occasione come prova del nove per verificare le mie nozioni o le informazioni acquisite, dal momento che nessuno “nasce imparato” e tutto ciò che ho raccolto deriva semplicemente da cocciutaggine e passione personale) nonchè altre pagine non "del settore" ma comprendenti appassionati di quel mondo polveroso e selvaggio che è la Frontiera. Non faccio nessun singolo nome, a parte quello della più autorevole delle mie fonti, ma con questa mia insolita conclusione vorrei stringere virtualmente la mano ad ognuno di voi, a tutti coloro che sono andati, e che spero continueranno ad andare anzi a venire a buttare un occhio su anche solamente una delle recensioni pubblicate.
Proprio perchè cercherò di non starmene in panciolle, senza scoprire troppo le mie carte, posso rivelarvi che ho un paio di progetti "avviati" e se vanno in porto potrebbero essere qualcosa di nuovo ma soprattutto spero bello e coinvolgente per ogni texiano.
Chissà, magari in occasione di Lucca Comics 2018 o per Natale, in un articolo vi spiegherò meglio e riuscirò a farvi un regalo, mi auguro gradito.
Ho pensato di far precedere questo mio lungo ringraziamento che funge da finale di questo lunghissimo articolo con un disegno che ai più attenti forse non risulta del tutto nuovo. E' infatti la versione rivisitata del primo disegno comparso sulla prima recensione.
Vi posso anche garantire che l'abnorme logorrea che ho dimostrato stavolta e che spero non abbia portato nessuno ad improvvisi pisolini né vi abbia annoiato oltre misura, è stata solamente il frutto di tutta una serie di concause: il Texone pieno di riferimenti, la storia da analizzare, il “compleanno” in qualche modo da celebrare degnamente…
Un fiume di parole che è accaduto come una tantum, mentre già dalla prossima volta rientrerò nei ranghi, tornando ad essere più conciso. Vi ho visto, compadres, non fate quell'espressione come a dire “si, come no”!
So bene che rispetto a riviste importanti o certi siti che si trovano “sulla breccia” da molto tempo, io sono solo un poppante, un "papoose", ma la colazione è stata abbondante, il cavallo è fresco, le sacche della sella sono piene (di munizioni e provviste), le borracce anche, Colt e Winchester oliati e carichi.
La strada sarà lunga, quindi Stetson ben calato sulla zucca e redini ben salde in pugno.
Hasta luego, hermanos! il West è lì che ci aspetta!
Vamonos!
Soggetto e sceneggiatura: Mauro Boselli
Copertina e disegni: Majo
Lettering: Renata Tuis
240 pagine